L’attivismo ha caratterizzato la mia vita da quando avevo poco più di vent’anni a qualche anno fa (ora ne ho 38).
Ho iniziato in un’epoca in cui transgender era sinonimo di prostituzione, e definiva, in ogni caso, una donna transgender mtf eterosessuale e medicalizzata.
Avevo bisogno di una fucina culturale per confrontarmi con altre persone gender non conforming, o portatrice di una delle diversità declinate dall’acronimo LGBT e questa fucina è stata il Circolo Milk Milano, attivo fino al 2021, e di cui sono stato presidente dal 2010 al 2018 e poi onorario.
L’importanza dell’attivismo culturale e i bug dell’associazionismo assistenzialista
Il lavoro culturale e di confronto è stato molto prezioso, ma ho le mie remore, e le avevo anche ai tempi, su tutto l’universo di servizi che, per iniziative di consiglieri e soci, sono state fatte. Finché si trattava di attività culturali in ambiente protetto (teatro, lingue, meditazione, fotografia), penso che fossero occasioni preziose per finanziare il circolo e contemporaneamente permettere a persone non conforming di partecipare senza giudizio, senza misgendering e deadnaming, ad attività ricreative e di socializzazione sana.
L’universo dei “servizi” veri e propri, invece, ha causato dei meccanismi pericolosi, perché, ahimè, le persone associavano questi spazi a numerosi “sportelli” sul territorio, promossi da attività profit, e pretendevano dai volontari (e anche dai membri del direttivo, non direttamente coinvolti nelle attività di servizio), una disponibilità 24 ore su 24, gratuita e senza mai un ringraziamento.
Associazionismo e ingratitudine
Più persone, negli anni, mi hanno ricordato che l’attivismo è un’attività che può essere fatta solo da chi sa benissimo che non arriverà mai un grazie, un sorriso, ma si sarà soggetti a una richiesta di aiuto sempre maggiore, di tempo, energie, a volte persino di esborsi economici, e non ci si concentrerà mai su quello che hai dato, ma su quel poco che non hai dato, perché magari era esaurito il tuo tempo o le tue energie.
Un altro tipo di attivismo: quello “sul campo”, nella vita di tutti i giorni
Il problema dell’attivismo intensivo è che non lascia il tempo per “mettere in ordine” la propria vita, migliorare la propria posizione professionale, fare studi post lauream, o altro, e si finisce per non riuscire a fare quell’attivismo, penso ancora più importante, che è quello di farsi vedere vincenti e realizzati nella vita di tutti i giorni, ed essere esempio positivo, parallelamente, sia per le altre persone appartenenti alla propria soggettività, sia per chi, prima di conoscerci, aveva un’idea stereotipata delle minoranze.
Sentirsi il primo tra gli ultimi, essere contagiat* dalla rassegnazione
Inoltre, l’attivismo, in particolare l’associazionismo, ma anche la “bolla web”, tendono a smorzare le aspettative e le ambizioni personali. Moltissime persone (soprattutto nell’attivismo web, ma anche nell’utenza associativa), sono, di fatto, Neet (Not [engaged] in Education, Employment or Training, Non [attive] in istruzione, in lavoro o in formazione), e gli attivisti e le attiviste, spesso, perdono la bussola, il metro di valutazione, e iniziano a sentirsi fortunati anche solo ad avere un lavoro mal pagato e non coerente con i propri studi. Si finisce a nutrirsi di un sentimento di sentirsi il “primo tra gli ultimi“, un esempio positivo tra persone che, per via delle discriminazioni, sono in condizioni di forte disagio, piuttosto che inseguire il desiderio di migliorarsi ulteriormente.
Quante volte ho battagliato con persone di destra che dicevano che il movimento si “piange addosso” e fa vittimismo? Non si rendono proprio conto che una persona con una (o più) diversità deve faticare il doppio, il triplo, il quadruplo, per arrivare ai risultati di chi, magari molto più mediocre, è maschio etero, bianco e cisgender. Ma a volte si finisce all’estremo opposto: cullarsi nel vittimismo e “contagiarselo”, e così, quello che è difficile (realizzarsi appartenendo ad una minoranza), diventa impossibile, trascinati da un sentimento condiviso di rassegnazione.
Cyberattivismo, neet e perdita del contatto con la realtà
Si finisce ad impiegare tantissime ore a battagliare con persone con idee viziate da una vita che ha perso il contatto con la realtà, come il filone gender critical, che descrive l’America senza averla mai visitata. E si impegna tempo ed energie in attività inutili.
Inoltre, la bolla web dell’attivismo e l’associazionismo (ma questo non riguarda solo le persone LGBT) attraggono persone che a volte non sono neanche LGBT, e che si aggregano perché hanno altre tematiche, che nel migliore dei casi sono un semplice senso di solitudine, e nel peggiore sono tematiche psichiatriche complesse, che volontari ed attivisti non hanno la formazione per gestire, oltre ad avere tutt’altra finalità.
Queste persone, spesso, mascheravano il loro bisogno degli spazi inclusivi che noi persone LGBT fornivamo (e che il mondo etero, che non li includeva, non forniva) con un desiderio di frequentarci per “aiutarci nelle nostre battaglie”, e pretendevano da noi devozione, un continuo ringraziamento per il fatto che loro, “pur essendo etero e cisgender”, ci “accettavano” e trascorrevano del tempo con noi.
Gli sciacalli arcobaleno e l’omotransfobia interiorizzata nell’aiutarli
Se non bastasse questo triste scenario, c’è anche un sentimento di omotransfobia interiorizzata che spinge a dare attenzione a un vero e proprio esercito di sciacalli. Si tratta di persone che potremmo dividere in queste categorie:
- professionisti (avvocati, psicologi, psichiatri, counselor, endocrinologi) alla frutta,
- tesisti guidati da professori baroni bianchi e cishet (cisgender etero),
- uffici stampa di brand alla moda che sbandierano inclusività,
- politici alla frutta
Perché chi aiuta queste persone “friendly” soffre di omofobia interiorizzata?
Il problema non sono queste persone: anche io, se scoprissi una nicchia disposta a lavorare gratis per portare luce al mio personal branding o a miei attività profit, forse mi lancerei. Il problema è l’omotransfobia fortissima delle persone che gli “sciacalli” contattano.
Qualcuno sarà sorpreso a vedermi affermare che chi dà spazio a queste persone friendly soffre di una potente omotransfobia interiorizzata. Sembra persino una contraddizione, ma pensiamoci bene: gran parte delle persone coinvolte nell’attivismo, nell’associazionismo, e nella bolla LGBT del web è convinta, magari senza saperlo, che essere LGBT sia una cosa talmente meritevole di disprezzo, che chiunque fa anche solo capire che non ci odia e schifa va riempito di attenzioni, aiutato nella sua professione, nel suo percorso di studi, nella sua campagna elettorale, nella crescita economica del suo brand. In pratica, se qualcuno non è omotransfobico, “merita” un esercito di persone LGBT che lavorino gratis per lui o lei.
L’esercito dei lavoratori gratis, per omaggiare le persone “friendly”
E così abbiamo una carica delle 101 persone LGBT che compilano squallidi questionari (a volte con domande sessuali molto intime) che preparano tesi di laurea ideate da vecchi professori, che amano che le loro tesiste stiano sotto la cattedra e non sopra, tesi di cui non è chiaro l’intento, e che non cambieranno la condizione delle persone LGBT.
Poi, abbiamo una carica di persone atte a promuovere professionisti a pagamento, anche solo per darsi un tono: reinventarsi operatori di uno sportello, virtuale o non virtuale, in cui segnalano questi “specialisti”, che non daranno loro nessun riconoscimento, neanche simbolico.
C’è poi ovviamente chi fa intere campagne elettorali a politici che hanno il solo pregio di non insultare le persone LGBT (non si rendono neanche conto di quanto valore economico abbia postare in continuazione contenuti a favore di un partito o un personaggio politico) e infine coloro che regalano backlinks (link a siti, in questo caso aziendali, molto apprezzati da Google e dalla SEO, che generano un miglioramento del posizionamento dell’azienda e quindi dei grossi guadagni economici per essa) a multinazionali che magari hanno semplicemente inserito i pronomi, o il genere “altro”.
Essere servili verso gli sciacalli arcobaleno è “normale”: è strano chi non lo è
La ciliegina sulla torta di tutto ciò è che questi comportamenti servili, questo “scodinzolamento” di fronte allo “sciacallo arcobaleno” è talmente frequente che chi si dissocia, chi chiede un riconoscimento, o si nega, viene visto come un pazzo, e gli si ricorda subito che invece “tutti gli altri” si sono dati da fare a lavorare gratis per brand, politici, tesisti e professionisti, quindi l’attivismo è troppo “inquinato” dall’altrui transfobia interiorizzata per poter anche solo delineare un’altra via.
Di certo, i pronomi su linkedin, i personaggi non binary su Netflix, lo scevà, hanno influito a migliorare la percezione comune, a presentare al mondo la realtà del genere non binario, ma bisogna aver chiaro in mente che noi LGBT siamo una fetta di mercato, e che le aziende hanno un immediato ritorno economico quando ci “coccolano”.
Quanti brand ci chiedono consulenze gratis sui pronomi o su altre politiche friendly per i loro siti? Queste consulenze hanno un valore, ma spesso alle informazioni che diamo non segue neanche una risposta, neanche un grazie, perché oggettivamente il lavoro che si fa gratis viene identificato come privo di valore, ed è questo il vero bug dell’attivismo.
Qual è la soluzione? Farsi pagare o ritirarsi?
Qual è la soluzione? Farsi pagare? Forse qualcuno ha trovato questa strada, e ha la mia stima. Personalmente io ho una formazione e un percorso di vita professionale che mi porta a interessarmi, per lavoro, di temi di altro tipo, e lavoro, con grande soddisfazione, personale ed economica, in un altro settore. E, proprio grazie a questo benessere che ho costruito proprio quando ho tolto tempo all’attivismo, potrei anche permettermi di lavorare gratis nell’attivismo, ma ho smesso di farlo proprio per questo bug: il lavoro gratuito genera disprezzo, maltrattamenti, pretesa che si venga assistiti sempre, anche di notte e su tutto.
La cosa paradossale è che proprio l’attivismo, da cui adesso prendo le distanze per i problemi intrinseci che ho descritto, ha contribuito, negli anni, a costruire la mia autostima, ed è proprio grazie a questa autostima (che mi ha poi portato a farmi apprezzare in contesti lavorativi anche molto prestigiosi) che non riesco più ad accettare, cosa che prima facevo, la maleducazione di chi pretende assistenza, o l’arroganza di chi si aspetta che io lavori gratis per il suo brand, per ringraziarlo del non considerare spazzatura le persone non binary.
Immagine di wayhomestudio su Freepik