La cisnormatività e il mio attivismo: come chi segue il blog sa, per 12 anni l’attivismo ha fatto parte della mia vita. Mi sono scoperto gender non conforming in un periodo storico in cui gli spazi di riflessione sul tema erano più degli sportelli, gestiti da etero cis che di lavoro facevano quello (retribuiti), atti a dare informazioni sui professionisti del transificio.
In alternativa, c’erano associazioni in cui le persone ai vertici erano “transessuali” (ai tempi si usava questo termine) e in effetti c’erano, oltre agli sportelli atti a indicare il nome dei vari professionisti del transificio, anche dei gruppi di autoaiuto, in cui però le persone non med e non binarie erano ospiti poco graditi, scambiati per ally, questioning o “pre T” confusi, e spesso trattati con paternalismo, quando non esclusi.

Cisnormatività e cismimetismo: un tentativo di riflessione sulla sopravvalutazione dell’aspetto fisico da parte di persone gender non conforming

Alla luce di un pensiero che, forse a causa di influenze esterne, mi è appartenuto, ovvero che si ha “il dovere di fare quello che avremmo voluto fosse fatto per noi” (oggi penso che farlo equivalga ad essere doppiamente “cornuti e mazziati”), ho voluto creare spazi inclusivi, in cui tutte le persone sotto l’ombrello della non conformità di genere avrebbero potuto dialogare, confrontarsi, e fare insieme quel percorso di affermazione mentale che parte della psiche e non prevede obbligatoriamente una body modification.
La mia affermazione di genere personale è stata prevalentemente questo: decostruire tutti i dettami educativi ricevuti “a causa” del mio sesso biologico, a cominciare dall’importanza e la centralità dell’aspetto fisico, della bellezza, sempre rigorosamente concepita come qualcosa al servizio del gusto dell’uomo eterosessuale.
Ho sempre pensato che la vera affermazione di genere sia questa, e che questo passaggio debba esserci in tutti i percorsi (sia quelli med che quelli non med, sia quelli binary che quelli non binary), e che non è detto che arrivi quando si fa coming out: io, ad esempio, ho continuato a dare importanza allo sguardo esterno per anni, forse perché ero giovane, forse perché ci vuole non poco tempo per liberarsi dei retaggi educativi ricevuti per decenni.

L’affermazione di genere parte dalla mente: spogliarsi dalle aspettative della cisnormatività

Si parla sempre di cosa si fa per gli altri e cosa si fa per sé stessi, in un percorso di affermazione di genere. Spogliarmi degli orpelli rivolti agli individui nati femmina è stato un passaggio importante, perché non desideravo incarnare quell’immagine. Questo mio desiderio era sia personale che sociale, e considero sbagliato tutto il “catechismo” che obbliga a dire che “lo facciamo solo per noi”, in quanto è impossibile immaginarci fuori dal contesto sociale. Non mi interessa divulgare contenuti in cui non credo, per evitare attacchi transfobici o terf: l’immagine che desideriamo si lega al contesto. Questo riguarda sia med che non med, ma in modo più ampio riguarda chiunque, anche e soprattitto le persone cisgender eterosessuali. Togliere degli orpelli e metterli sono due facce della stessa medaglia: dare dei messaggi al mondo di relazioni in cui ci destreggiamo.

Sapevo bene che discostarmi dall’immagine che ci si attende da una giovane persona di sesso biologico femminile avrebbe creato una profonda disapprovazione sociale, proprio a causa del fatto che il mio corpo non aveva subito body modification mediche e, come corpo percepito come femminile, non gli era concesso di liberarsi di depilazioni e altri rituali rivolti ai corpi femminili. In quel caso, ho fatto una riflessione profonda su ciò che facevo per me e ciò che avrei dovuto fare per piacere agli altri. Il mio cambiamento non migliorava affatto la mia qualità di vita, perché il contesto mi avrebbe accettato solo in due modi: con un aspetto coerente al sesso di nascita o con un aspetto che mi faceva sembrare una persona nata maschio e con un look appropriato per un uomo (etero).
La non conformità xx non ha sfumature: o si viene percepiti uomini biologici, anche se alti un metro e quaranta, se con la barba, o si viene percepiti lesbiche. Non donne e basta, ma proprio “lesbiche”, perché è inconcepibile che una donna si conci in un modo così ripugnante agli occhi di un uomo etero, se attratta da uomini. Questa è anche la mentalità che impedisce di immaginare che ci possano esserci donne lesbiche non butch.
Se per le donne transgender esiste una possibilità, essere percepite “donne transgender”, quindi né uomo, né “donna biologicamente femmina”, questa possibilità, in direzione ftm non esiste. A una donna transgender percepita tale si può scegliere di dare il femminile, per educazione o per apertura mentale, o di non darlo (se si è fanatici religiosi o fascisti), ma si è coscienti di avere di fronte una donna trans e non “un uomo qualsiasi”.
Quando si è di fronte ad un ftm, questa scelta non esiste, perché l’ftm “non esiste”: esiste o l’uomo biologicamente maschio, o la lesbica butch.

Passing e pronomi corretti “in automatico”: se non c’è sforzo, non c’è errore (ma neanche inclusione)

In un mondo non abituato a chiedere generi grammaticali e pronomi, tutte le persone che incontriamo senza presentarci e raccontare la nostra storia ci attribuiranno un genere in base a ciò che vedono o credono di vedere. Poi ci sono quelle persone a cui ci presentiamo e indichiamo un genere, e che “si sforzano” di darci il genere che chiediamo, anche se i loro occhi vedono altro. Questa è la vera inclusione per le persone transgender, perché rivolgersi al maschile a chi viene visto uomo dai propri occhi non richiede apertura mentale, anzi oserei dire che sarebbe uno sforzo fare il contrario.
Quando c’è sforzo c’è anche errore, misgendering, anche in buona fede. Quando c’è passing invece no, ed è per questo che la percezione sociale, che, se coerente a quello che desideriamo, ci genera benessere mentale, ha un suo ruolo nel cambiamento che alcune, molte persone gender non conforming, affidano alla chimica.
Che il passing (a volte dovuto a transizioni chimiche, a volte no), migliori il benessere delle persone gender non conforming, perché elimina lo stress del misgendering, è un fatto, e non è un fatto errato e da contestare. Non bisogna trovare per forza altre mistiche ragioni che possano spingere una persona a cambiare il suo aspetto. C’è chi per gli stessi motivi dimagrisce, o fa una chirurgia non legata al genere, eppure non ci sono polemiche.
Nel caso delle persone gender non conforming, invece, si ha paura di parlare di passing e rispetto sociale, perché altrimenti arrivano “le terf“, le quali, per la cronaca, odiano sia le persone transgender medicalizzate (e fanno polveroni sui minori), sia quelle non medicalizzate (vedi la loro guerra sul self ID), e questo mi ha spinto, negli anni, a trasformare il mio blog in un queerzionario, che descrive il significato di termini come abilismo, ageismo, grassofobia, ed  un’ottima guida per persone che si interrogano, ma ho eliminato “il contributo di pensiero”, stanco di dover aver sempre paura che “le terf” strumentalizzassero il mio pensiero, trattandomi da Zio Tom.

Da transessuale a trans, da transgender a non binary, il frenetico cambio di significato dei termini

Anni fa, come sa bene la mia amica Laura Caruso, dicevo in modo pacato “ok, non sono trans”. Era una risposta alla “pioggia” proveniente dal web che considera transgender solo chi prevede, nella sua affermazione di genere, la chimica e la body modification. A me andava bene. Trans non è una parola che rivendico. Trans è un termine che molte persone pulite, colte, affermate, usano per “ripulirlo” dall’immaginario che associa a “trans” la prostituzione, la sieropositività, e la ricerca di approvazione dall’uomo etero più zozzo, pruriginoso e torbido che si possa immaginare. Pulire un termine, però, significa in qualche modo sporcarsene, mentre lo si pulisce, e io ho dato già abbastanza al movimento da non voler perdere ancora. Visto che in tanti insistono a dire che non med e non binary non sono trans, a me sta benissimo non usare questo termine, in cui neanche mi riconosco.
Diversi sono i termini come transgender e non binario. Transgender nasce come termine unisex che si contrappone a “la transessuale” e “il transessuale”, ai tempi usati come termini binari. Transgender lo rivendica ad esempio Leslie Feinberg. Col tempo, però, transgender diventa un aggettivo, associato a “donna transgender” e “uomo transgender”, perché transessuale viene deprecato, associato ai professionisti del transificio, che lo hanno appioppato alla società. Nasce così “non binary”, che diventa il nuovo termine che descrive chi è fiero di essere “al di là del genere”. Mi aspetto che prima o poi anche non binary venga rivendicato dalle persone gender non conforming “binary” e che quindi debbano nascere volta per volta sempre nuovi termini per descrivere chi non si riconosce nella dicotomia binaria. Pazienza: dovrò continuamente aggiornare il queerzionario del blog!

Il primo intervento chirurgico necessario: “asportare” l’educazione binaria ricevuta

Nel mio caso, il mio percorso di affermazione di genere non ha previsto asportazione di parti del corpo, ma ho “asportato” il bagaglio pesante di educazione di genere che trasportavo. Come nato xx, avevo ricevuto, da scuola, amici e parenti, un’educazione che metteva al centro l’aspetto fisico e la sua importanza. La coerenza con gli stereotipi di genere del sesso di nascita era un requisito per una vita felice da persona integrata. Questo messaggio viene trasmesso, esplicitamente o meno, a tutti i soggetti nati femmina: compiacere e rassicurare lo sguardo maschile, ma anche quello femminile, fatto di continui confronti tra api regina e seguaci, che vivono di femminile tossico.
Gli stessi valori li ho trovati nei miei primi anni di affermazione di genere, proprio dietro la comunità lgbt, e non solo nel biologismo, consapevole o meno, di gay e lesbiche anziani, persone tristi che non fanno altro che giudicare le relazioni che intraprendono le persone gender non conforming. Anche una grossa parte della filosofia trans si basava sulla centralità dell’aspetto, tanto che viene i professionisti del transificio, i e le quali incoraggiano molto i loro “pazienti” a rincorrere ideali estetici binari, chiamano “cura” ciò che lo cambia, come se prima l’aspetto fosse sbagliato e da correggere, e chi viene istruito da questi professionisti, ma anche da alcuni catechismi dell’attivismo, porta avanti queste idee e posizioni, e le “vomita” sugli altri. Non succede raramente che in gruppi di confronto, virtuali e non, alcune persone transgender “tossiche”, dopo un po’ di euforia dovuta al passing, o a una parvenza di passing, si sentano legittimate a disprezzare l’aspetto di persone non med o pre transizione, esplicitando maleducatamente il loro sollievo a non avere più quell’aspetto. Questi sono i risultati della “palestra del transificio”, delle sentenze in cui viene guardato il look, del “permesso” di essere uomini o donne rilasciato da giudici e psichiatri.

Il catechismo tossico appreso dai professionisti del transificio

Nei gruppi di autoaiuto arriva quindi questa tossicità, che crea delle vere e proprie gare di passing, in cui persone con una fisicità coerente alle aspettative rivolte al genere d’arrivo umiliano chi, per scelta o suo malgrado, ha un aspetto in cui alcuni tratti del sesso di partenza (altezza, voce, altro) sono evidenti. In questa gara alla conformità di genere, viene lasciato poco spazio alla fierezza per la propria unicità. Si abbandonano le gabbie scomode in cui veniva proposta forzatamente la conformità al sesso di nascita per imporre la conformità al genere d’arrivo. Questo riguarda l’aspetto fisico, ma a volte anche i comportamenti. Un altro aspetto interessante di tutto ciò è quello che nei gruppi chiamavamo “vivere in Matrix”. Alcune persone iniziavano a vantarsi di un presunto passing sfavillante, vivendo un totale distacco dalla realtà. Tutto questo accadeva anche per l’approccio “iniziatico” che si ha verso la transizione medicalizzata, come se la prima assunzione fosse una deadline durante la quale tutto cambia, anche per chi, all’oscuro di tutto, ci osserva da fuori.
La verità è che, per la società, un corpo femminile non conforme è ripugnante: peli sulle gambe, basette sagomate “come è permesso solo agli uomini”, rendono un soggetto xx che vuole affermarsi al maschile un vero e proprio zimbello, ed è per questo, spesso, che molte persone vogliono passare velocemente da un aspetto rassicurante femminile a una percezione sociale di sé stessi al maschile, dove una gamba pelosa diventa una “normale gamba pelosa di uomo”, così come una basetta sagomata. E quelle persone, quelle sedute accanto, nel gruppo, portatrici di un’androginia disapprovata dalla società (come ogni androginia che non comprende magrezza, giovinezza e ammiccamenti femminili), diventano una prova vivente di un ricordo da cancellare. Il problema diventano loro, non il dito giudicante e binario che le disprezza.

Quando non c’è cultura, l’aspetto fisico diventa il parametro più rilevante

In quegli anni lavoravo anche in un’azienda tossica e piena di persone ignoranti, sia etero che gay e lo sguardo schifato di quelle persone T che avevano un briciolo di passing in più di me mi sembravano quasi un miglioramento, una boccata d’ossigeno nelle mie giornate, il meno peggio che poteva accadermi.
Oggi sento distanti entrambi i mondi, sempre alle prese con la centralità dell’aspetto fisico e incapaci anche solo di immaginare che si possa essere belli anche tramite il carisma, i comportamenti, la cultura, la non conformità. Questo forse dipende dal fatto che spesso la media culturale dei e delle partecipanti è bassa, e così come per l’azienda di babbuini per cui lavoravo, quando non c’è altro, né cultura, né competenza, né intelligenza, l’estetica diventa il parametro più importante.
I gruppi di condivisione, anche quando attivati in buona fede, diventano solo pubblicità gratuita ad avidi professionisti del transificio e chi si lamenta del ricevere feedback basati sul binarismo, sulla cisnormatività, e di essere spinto ad adeguarsi al cismimetismo viene accusato di non avere abbastanza passing, di essere invidioso, di “non avere il coraggio” di affrontare l’unico percorso T che in Italia rilascia dei diritti.

Cisnormatività: una vera necessita nell’autocoscienza: una riflessione seria su passing, cismimetismo, sopravvalutazione dell’aspetto fisico

Non si riesce mai davvero a fare una seria riflessione sul valore stesso del passing, quel passare per qualcosa che mette al centro lo sguardo altrui, lo innalza e noi diventiamo piccini a cercare di pilotare quello sguardo in modo che ci veda per quello che siamo solo tramite accorgimenti estetici. Nei gruppi online (e non) si parla poco di cisnormatività, e di come il desiderio di conformarsi alle aspettative di un genere o dell’altro, cercando di far durare “il passaggio” il meno possibile sia solo frutto del binarismo interiorizzato. Non si parla mai di come molte persone trasngender siano drogate di cisnormatività.

Chi esprime idee diverse viene sommerso da frasi da “catechismo”, slogan, o viene accusato di transfobia interiorizzata. Chi ha un aspetto non conforme e ne è fiero deve subire il disprezzo di alcune persone che hanno o credono di avere “il passing” e quindi, il disprezzo di chi ha un aspetto non conforme fa parte della sua euforia di genere. Chi invece non desidera il percorso canonico deve stare attento a parlare, perché verrebbe subito accusato di invidia o di transfobia.

Sapersi emancipare dalle censure e dalle “teologie” dell’attivismo

Per questi motivi dico che la mia vera affermazione di genere è recente, perché prima avevo paura a mettere in discussione la scala di valori di quella che dovrebbe essere la mia comunità di riferimento. Avevo sempre paura di accuse di transfobia interiorizzata, mi accontentavo di gruppi misti, med e non med, dove spazio e tempi di parola erano sempre cannibalizzati dalle persone med, e la loro ricerca di grassi professionisti del transificio, pronti ad essere pubblicizzati gratis. Mi accontentavo di spazi dove dovevo stare sempre attento a cosa dire, quando però non ricevevo le stesse attenzioni in cambio.
Per anni, ho accolto in associazione persone che, a volte in modo non particolarmente sano, mi esaltavano come un guru, provenendo dalla lettura del mio blog, con contenuti fortemente antibinari. In realtà, poco dopo si scopriva che erano solo persone questioning che presto sarebbero approdate a percorsi tradizionali, un po’ come le tante persone gay che “credono” di essere stati bisex solo perché per un certo periodo sono stati questioning.

Tutt* credono di essere stat* non med, ma sono semplicemente stat* “pre T”

Ne ho visti arrivare tanti, tanti, tanti, ai miei gruppi, definendosi non med. Dopo pochissimo, cambiavano idea, rivelando di essere semplicemente dei “pre t” in attesa di medicalizzazione, ma da quel momento in poi, il loro atteggiamento verso di me, e verso altri del gruppo, cambiava radicalmente.
Non dico che questo riguardasse tutte le persone interessate a percorsi canonici, ma non voglio neanche dire che le persone con questo atteggiamento siano state poche. Dopo pochi mesi di tos, e dopo un assaggio di passing, iniziavano a trattare le persone non med come persone confuse, prive di coraggio, da reindirizzare al percorso “normale”, anche se sembra davvero assurdo.
L’equivoco, non so quanto in buona fede, era causato dal fatto che viene confusa l’esperienza Pre T con quella Non Med, o forse, non dando abbastanza dignità all’esperienza non med, si pensa che si sovrapponga con l’essere pre T, come se sia una fase vissuta “prima di trovare il coraggio” e “prima di accogliere l’unico vero percorso”. Questo poi porta, inevitabilmente, le persone med a pensare di aver “provato” l’esperienza non med, e di essere superiori ai non med, che, ovviamente, non avrebbero invece provato l’esperienza med.
Queste persone, talvolta, come presidente del circolo che ospitava questi spazi, tendevano a trattarmi come una persona a servizio della loro conformità. Non erano minimamente interessate agli eventi culturali, tanto che non venivano, né erano interessate a un cambiamento sociale, culturale e giuridico o a mettere in discussione la cisnormatività: desideravano solo che qualcuno si informasse al posto loro sul percorso canonico, un po’ per pigrizia, un po’ per incapacità, e pretendevano addirittura questo “servizio gratuito” da chi quel percorso non lo faceva e lo contestava.
Seguivano poi varie fasi d’obbligo: la richiesta di cancellazione di vecchie foto, di qualsiasi loro presenza sul blog del circolo, la rimozione dell’amicizia, perché evidentemente si sentivano “sporcati” da contatti con persone T e non binarie visibili. Al centro del loro comportamento, l’ingratitudine.
Prima di tutto questo, l’invito alla “festa del cambio documento”, dove venivano invitate anche persone in percorsi che questa possibilità non ce l’hanno. Il messaggio strisciante dietro a questo invito era che noi dovessimo essere felici per loro, celebrarli, perché in fondo non eravamo neanche “veramente trans”, e in fondo era anche un po’ colpa nostra se non potevamo cambiare i documenti…

I gruppi non med e non binary come terminal aeroportuale di passaggio

Alla luce di questa desolazione, viene da pensare se persone come me hanno davvero una comunità di riferimento o no, se abbia senso, per esempio, fare gruppi “separatisti” solo non med (o estendendo l’esperienza anche alle persone non binary). In realtà, il problema è che per troppe persone questa definizione è una fase, e che quindi non si riuscirebbe a fare un discorso avanzato, ma si tratterebbe di un servizio di orientamento che indirizza persone a percorsi canonici, oppure al ritorno alla vita cis. Molte persone che bussano ai gruppi non med, infatti, pur essendo molto colte e capaci di riflessioni sofisticate (o forse proprio per queste loro caratteristiche), di fatto esprimono la loro identità non med (o meglio, non esprimono), con una vita offline totalmente “in modalità cis” e nel velatismo, e quindi questo tipo di gruppi non può che arenarsi e rimanere a vita un gruppo “entry level”, destinato a veder continuamente “partire” delle persone, che finiscono poi nel percorso canonico o in un “ritorno indietro” dopo una sperimentazione. Questi gruppi finirebbero per essere un terminal aeroportuale in cui gli unici stanziali sono i gestori del gruppo.

Conclusioni: forse l’ombrello antibinario prescinde dalla comunità LGBT

Col tempo, ho capito che alla fine la mia comunità di riferimento è allo stesso tempo molto più grande della cosiddetta comunità LGBT, perché comprende anche etero cis, ma molto più piccola, perché ad aver realmente compreso i valori del non binarismo sono in pochissimi.