Gabriele Belli oggi.
Dopo l’esperienza del Grande Fratello, riparte con due nuovi, importanti, progetti.
E’ counselor a indirizzo bioenergetico, e ha fondato l’azienda che produce packer e protesi per ftm, non binary, mistress, butch, ma anche uomini biologicamente maschi che hanno subìto amputazioni: nasce così ForToMan, oggi Pymander.
E adesso, la parola a Gabriele…
Gabriele, transgender del Grande Fratello…raccontaci chi sei: età, provenienza, studi, passioni, professione…
Salve a tutti, grazie Nathan.
Ho 46 anni, sono nato a Roma e vivo a Milano da 17 anni. Sono diplomato ragioniere, ma ho sempre amato la Biologia, la Psicologia, la Comunicazione e e la Fisica Quantistica. Fin da piccolo mi caratterizzava una spiccata intelligenza emotiva che mi ha creato non pochi problemi nel relazionarmi con gli altri. Negli anni poi è invece diventata uno dei miei punti di forza.
Raccontaci la tua storia in relazione all’orientamento sessuale e all’identità di genere.
Ho percepito la mia identità maschile a 3 anni, senza farmi domande ero convinto di ciò che sentivo di essere. Il mio corpo non fisico, intrappolato sotto la pelle, si è sempre manifestato alla mia mente nonostante il mondo intorno a me mi rimandasse l’informazione contraria: non sei un maschio, sei una femmina. Io me ne fregavo e vivevo l’immagine dei miei pensieri pur sapendo già che la vita non mi avrebbe perdonato il fatto di essere venuto al mondo.
La sensazione di soffocamento è diventata insostenibile con la pubertà, lo sviluppo, e così a 18 anni ho cercato delle soluzioni a questo malessere senza nome. Il mio medico mi disse che al San Camillo di Roma facevano degli interventi particolari: attaccavano peni prelevati da cadaveri. L’immagine balzata alla mente era cosi lontana dalla mia idea di essere Uomo che mi arresi all’istante. Altre vicende familiari tra l’altro mi impegnavano molto e dunque per lungo tempo abbandonai ogni forma di ricerca e vissi semplicemente la mia relazione sentimentale con una donna, già felice di aver trovato una specie di “collocazione” sia personale che sociale. In quel deserto di affettività che era anche la mia famiglia d’origine, è stato comunque una specie di cordone ombelicale di nutrimento. È stato come dire: “il mondo non può darmi niente, allora per non morire di fame prendo ciò che c’è, e quel filo di cibo almeno mi sostenta”. Ho passato anni a chiedermi di cosa avessi davvero bisogno e non sono riuscito a darmi una risposta fino a 35 anni.
Penso che ogni persona che passa esperienze cosi profondamente dolorose come il non riconoscersi per lungo tempo nel proprio corpo, in un’età troppo giovane per fare propri certi strumenti di comprensione che possono aiutare, è come se lottasse ogni giorno e sopravvivesse con la volontà di dominare l’essere, o il non essere.
Quali sono stati i punti di riferimento (associativi e umani) per il tuo percorso?
Ho avuto molti riferimenti umani: primo fra tutti lo psicologo che seguiva la mia compagna dell’epoca, che andò da lui perché mi percepiva uomo e pensava di avere lei un problema. Fu lui il primo, non avendomi mai conosciuto, a usare la parola “disforia di genere” e indicarmi la strada da percorrere e il professionista di riferimento che poi mi seguì per i successivi due anni: il Dott. Cantafio di Torino. Una volta cominciato il percorso a Torino, e iniziando a capire che forse esistevano altre realtà oltre la mia, cercai a Milano un’Associazione per confrontarmi con i miei “pari” e conobbi Daniele Brattoli, Monica Romano, Antonia Monopoli. Tra azioni e contraddizioni, Crisalide fu la mia prima “famiglia” GLBT. Come in ogni famiglia ci sono stati momenti piacevolmente indimenticabili, momenti di lotta condivisa e momenti di differenze di pensiero. Decisi di staccarmi dopo due anni perché per mia natura sono molto incline al “self made” e per inevitabili divergenze di opinioni, pur rimanendo comunque inalterata la stima verso le persone che ho citato e con le quali, oggi, stiamo ancora ragionando su un concreto scenario di collaborazione.
Nei due anni successivi “sono cresciuto” da solo, studiando, osservando, cercando me stesso al di là delle opinioni comuni, e mostrando al mondo ogni giorno la “mia” transizione, fino ad arrivare alla decisione, del tutto casuale, di mostrarla al pubblico mediatico del Grande Fratello. Sono stati anni di solitudine e riflessione, nei quali ho cercato la mia verità su che cos’è la transizione e come va affrontata. In quel periodo m sono avvicinato alla bioenergetica, ho ricominciato a meditare e a cercare una soluzione di comunicazione efficace. Dopo il Grande Fratello si è aperto un altro capitolo della mia vita.
Fuggendo dal “falò delle vanità”, che avrebbe voluto l’immagine di un transessuale FtM il cui corpo fosse l’ennesima dimostrazione di un’esibizione torbida, ho combattuto per mantenere una coerenza tra i miei ideali, la responsabilità di essere il primo FtM così pubblicamente esposto e le intime paure personali di perdere tutto quello che avevo costruito fino a lì: carriera e famiglia. Fu in quel periodo che ritrovai la mia anima associazionistica e affiancai Fabianna Tozzi nell’Associazione Transgenere. Fu un periodo fervido di idee, e capii l’importanza di essere una squadra, di rispettare l’anzianità di chi ci precede, l’umiltà di un confronto di idee tra passato, presente e futuro.
Come è arrivata la scelta di un’esperienza di visibilità mediatica? Rimorsi? Rimpianti?
Come ho detto prima è stato casuale. Volevo fare qualcosa di determinante, qualcosa per aiutare le generazioni a venire nella possibilità di conoscere e scegliere. Da uomo di comunicazione (lavoravo nel marketing) mi sono visto come un “buon prodotto” televisivo e mi sono messo a disposizione del voyeurismo mediatico. Prima del GF una sessuologa mia amica mi propose di affiancarla per una puntata sul transessualismo per Odeon Tv, e lì mi resi conto che non temevo le telecamere, che per me parlare a una o mille persone era la stessa cosa. Quando qualche settimana dopo vidi la data dei provini del GF, andai. Senza aspettative, senza speranze di rimando narcisistico, semplicemente la voglia di aiutare “i figli di cui non sarei mai potuto essere padre” .
Non ho propriamente né rimorsi, né rimpianti, ho solo la consapevolezza che se avessi avuto accanto un’associazione mi sarei sentito meno solo contro i mulini a vento, e molte cose sarebbero potute essere spiegate meglio, agite da “noi” e non con il permesso e la concessione di qualche giornalista o presentatrice di grido. La pressione personale è stata molto forte e la sensazioni di fallimento mi ha turbato molte volte. Ho avuto molti dubbi su quello che potevo fare per essere davvero utile alla comunità GLBT, ed è stata dura in un momento personale di inizio transizione.
Poi, col tempo, maturando, superando gli interventi chirurgici e le difficoltà personali di aver perso lavoro e carriera ed essere diventato principalmente “il trans del grande fratello”, ho trovato nuovamente la mia forza, la mia coerenza e ho smesso di inquinare le mie azioni con le mie paure profonde. Ho capito che tutte le esperienze vissute, tutte, mi si erano presentate per arricchirmi e chiarirmi le idee, e che ognuno è artefice del proprio destino. Ho abbandonato il vecchio schema di pensiero giudicante che mi voleva “perfetto” a ogni costo e per tutti. Quando ho deciso di collaborare nuovamente con un’Associazione ho portato come contributo semplicemente l’ottimismo di cominciare una nuova impresa, e il sorriso che mi illuminava gli occhi quando inventai la mia vita: l’umanità e la semplicità di essere me stesso.
Gabriele Belli: un uomo eterosessuale. Ti sei mai interrogato sui corpi e sui generi che desideri? Hai mai messo in discussione la tua eterosessualità?
Si, lo faccio da sempre. Il mio amare e desiderare è sempre stato libero da schemi e pregiudizi. Semplicemente, fino a ora mi sono innamorato, legato sentimentalmente a donne, e se faccio un patto lo rispetto. Non possiamo controllare l’amore, ma finché amiamo una persona possiamo mantenere la promessa di starle al fianco. È un valore che ho sempre sentito dentro come frutto di una scelta libera, non come un obbligo. A oggi, per statistica si può definire eterosessuale.
Essere uomo: le trappole degli stereotipi di genere e la difficoltà ad accogliere anche una parte femminile nella propria espressione di genere: una tematica non solo FtM, ma maschile in generale: ce ne parli?
Ho fatto molti seminari in varie sedi negli ultimi anni su questo tema. Uno che mi viene in mente è: “Incontro con lo sguardo sociale – Uomini in trappola – Donne in catene”.
Quando si parla di identità di genere, ogni persona si sente in qualche modo coinvolta, quasi minacciata dal confronto con il diverso, che lo costringe a cercare di prenderne le distanze. Nel distanziarlo da sé, e nel renderlo invisibile attraverso processi di diniego sociale, lo si priva del diritto fondamentale di esistere.
Per quanto riguarda gli FtM, l’apparente privilegio di indistinguibilità con i maschi genetici, che si raggiunge esteticamente con gli ormoni, lungi dall’essere un reale privilegio, dimostra una forma molto più subdola di sottomissione: in questo caso il pregiudizio di una società maschilista si manifesta nel rendere “inesistenti”. Così, spesso si cade nella ricerca di soluzioni che non diano troppo fastidio, senza eccessive pretese, all’insegna dell’adattamento.
Transizionare da femmina a maschio significa essere “promossi” nella società che innegabilmente ancora oggi riconosce maggiore importanza agli uomini piuttosto che alle donne, ma anche questa è una trappola: infatti l’essenza dell’ordine patriarcale è proprio questa legittimazione del singolo soggetto maschile, convalidata dai pari del suo stesso sesso, e che naturalizza gli uomini detentori del potere.
C’è dell’altro, poi, che non va dimenticato nella storia maschile, al di là di ogni controversia con l’altra parte del mondo: si tende a dimenticare che una parte cospicua di uomini è vittima di maschi barbari, nonostante oggi portino la cravatta, che trattano i loro uguali per genere con violenze e vessazioni pari a quelle esercitate verso le donne. Questa categoria prepotente, violenta, dispotica, di maschi dominanti e dominatori, non ha mai cessato di offendere, eliminare o rinchiudere in ghetti di varia natura tutti coloro che tentassero di svincolarsi dalle divinità falliche, di prendere le distanze dai patriarcati culturali, religiosi e politici di ogni tempo. Sembra impossibile poter vivere serenamente una visione della vita, da uomo, alternativa a quella maschio-centrica.
La falloplastica è un tema tabù. Spesso gli FtM che ne parlano vengono invitati a ridimensionare il valore del fallo, vengono un po’ accusati di machismo, fallocrazia, binarismo… Ma non è forse legittimo desiderare di avere un pene?
È legittimo desiderare di essere felici, e altrettanto giusto conoscere e il valore del proprio desiderio. Ho seguito vari ragazzi il cui bisogno principale era fare la falloplastica, e si identificavano con il risultato della stessa per i più disparati motivi: minusvalore, mancanza di autostima, inadeguatezza. Penso che questi siano i presupposti sbagliati per affrontare un intervento così invasivo e ancora chirurgicamente poco soddisfacente. Ho altresì conosciuto FtM molto consapevoli di voler affrontare questo intervento per se stessi, per il piacere di vedersi e toccarsi in sintonia con l’immagine di sé, per sentirsi completi, senza però identificarsi con l’oggetto del proprio desiderio. Si sentivano uomini completi e coerenti a prescindere; e davanti all’opportunità di fare una falloplastica, ne hanno valutato i pro e i contro e hanno scelto.
Il desiderio del pene è solo legato ai rapporti sessuali, o è molto più profondo?
Sono certo che è molto più profondo. Ma in un’epoca che è tripudio di operazioni chirurgiche, di tagli e di aggiunte, sembra che la “cura” sia tutta meccanica, che si tratti di lunghezze e di larghezze, di dosi e di aggiunte. Il desiderio viene identificato con la sua parte fisica e questa è la maniera più sofisticata di negare al desiderio la propria verità. La manipolazione del desiderio è la capacità di rendere sordi rispetto a quanto di disturbante ha da dire.
Tutti sembrano sapere che cosa desidera un uomo o una donna, o un persona queer, trans, gay, lesbica. Nel caso del pene si apre uno scenario lungo decenni, dai primi studi psicoanalitici. C’è una specie di infantilismo nel desiderio del pene da parte di un uomo, perché come bambino si permette di mettere le proprie fantasie nella realtà. Eppure il desiderio è canzonatorio e contraddittorio nel suo essere ludico: sono stati versati fiumi di inchiostro sulla prepotenza della virilità maschile, ed è difficile non tentare di moralizzarla. Ma la questione sta nell’accettare che perfino la dolcezza (o, per un FtM, l’assenza di un pene) non sia una virtù. Il desiderio ha ragione, una ragione che può essere presa per arrogante ma sa dirci molto di noi.
Perché ai rapporti penetrativi viene ancora attribuito machismo?
Questo è un nodo difficile da scogliere: il desiderio maschile è ancora visto come una pretesa, una prepotenza, un modo di far sfuggire il piacere a un servizio o a una schiavitù. Io penso che penetrare ed essere penetrati è un gioco di desideri incrociati, ma ci vorrà molto tempo prima che la sfasatura originaria venga sanata.
Packer e protesi: appiamo del tuo progetto Pymander ForToMan Real Prosthesis. Che particolarità hanno le protesi di Pymander?
Pymander è nato per un mio bisogno di completezza. Dieci anni fa ne studiai le forme, i materiali, cercando per me stesso il meglio. L’unico sito che mostrava un realismo eccezionale, almeno dalle foto, era estero e le cifre in dollari per le protesi davvero proibitive. Un mio amico ne acquistò una e la delusione fu immensa: il pene era bello da vedere ma pesantissimo, importabile perché faceva una “gobba” piegandolo sia verso l’alto che il verso basso. Dopo qualche mese di utilizzo solo per i rapporti si cominciò anche a “sfaldare”. Ben 500 dollari più costi di dogana buttati.
Da quella delusione, per empatia con lui e per il mio stesso bisogno, cominciai a cercare una soluzione chiedendo informazioni a chi faceva trucchi scenici e agli odontotecnici, almeno per la loro esperienza dei materiali. Acquistai online un piccolo “packer” pieno e morbido da un sito tedesco, lo copiai, lo inventai cavo come un imbuto e poi da lì ne feci un altro per un mio amico. Altri ragazzi ai quali mostravo la mia soluzione mi chiesero misure maggiori, e da lì, copiando falli di dimensioni medie ma con la funzione per urinare e l’asta per renderlo duro, passo dopo passo sono arrivato a creare un laboratorio dedicato. La svolta per accuratezza estetica l’abbiamo fatta l’anno scorso. Ho fatto fare dei calchi da peni originali, e ormai, con la massima conoscenza dei materiali, possiamo replicare un modello come fosse l’originale.
Uno dei maggiori limiti delle protesi è che il loro uso è limitato al sesso “vaginale” (che non è per forza il sesso eterosessuale, visto che esistono donne col pene e uomini con la vagina!) Questa riflessione è stata da fatta? Come avete risolto la questione?
Non c’è stata una riflessione mirata, semplicemente perché come ideatore contemplo tutte le possibilità di benessere che può dare la completezza di una protesi: orale, anale, vaginale. Ognuno è libero di usarlo seconda le proprie fantasie. Esiste la versione “Realdoe” che dà eventualmente la possibilità a un FtM di esplorare la penetrazione vaginale come una prolunga della sensazione maschile di avere un pene.
Packer e protesi: usando le vostre vi è piacere psicologico. In qualche modo vi è anche piacere fisico?
Veramente quando ho ideato le protesi il mio obiettivo è stato quello del piacere fisico, l’aspetto psicologico era talmente ovvio che non era in discussione. La base di appoggio è personalizzata a seconda della individuale sensibilità del clitoride, e a tal proposito io sono sempre a disposizione per scegliere insieme al cliente la “sua” soluzione. Abbiamo risultati di piacere fisico da parte dei nostri acquirenti pari al 90%. Il 10% che non riesce a raggiungere l’orgasmo è la naturale percentuale di chi ha problemi a lasciarsi andare e a vivere con serenità l’uso di un “sex toy”, per quanto realistico.
Ci sono diverse dimensioni, colori e materiali di packer? Qual è la consistenza delle protesi?
Abbiamo protesi di quattro dimensioni diverse, in modo da coprire la maggior parte delle esigenze. Negli anni abbiamo ascoltato tutte le richieste e, tralasciando per filosofia aziendale la produzione di dimensioni extra long ed extra large, spaziamo tra i 9/10 cm per le protesi funzione STP fino ai 15/17 cm x 14 per i 3 in 1. Sfumature realistiche policromatiche a richiesta del cliente: chiara, media o scura ed eventualmente asiatica.
Quanto al materiale, è il migliore al mondo: silicone al platino medicale, usato nell’industria cinematografica e ospedaliera.
La consistenza? Morbida come pelle, a meno che uno non scelga una durezza maggiore. Basta chiedere.
Le protesi e i packer risolvono anche il problema dei bagni pubblici? Sono da portare solo durante i rapporti o quotidianamente?
Assolutamente sì. Diventa solo più difficile usare gli orinatoi a parete perché per la protesi più piccola serve un minimo di “gioco” per spostarla sotto l’uretra e inclinarla verso il basso per far defluire l’urina. Ma in generale la sola possibilità di poter urinare di spalle alla porta è già un grande vantaggio. Si possono portare 24 ore su 24.
Che lavoro facevi prima di approdare al mondo del counseling e come ci sei arrivato?
Sono stato un Marketing Manager per molti anni in una multinazionale del ramo elettrico, mi sono avvicinato alla PNL e al Coaching trovando in questi studi gli strumenti didattici di una mia naturale determinazione. Poi però, attraverso la Bioenergetica, la Gestalt e il Counseling ho imparato il piacere del corpo, il radicamento e l’ascolto dell’altro.
L’immagine del corpo è un’invenzione di quest’epoca: almeno per l’uso che se ne fa e per lo spettacolo che ne viene dato. Ma, sul rapporto che la mente stabilisce con esso in quanto scatola delle sorprese e distributore di emozioni, oggi come cento anni fa il silenzio in generale è ancora fitto. Oggi come allora il corpo viene guardato, radiografato, ecografato, analizzato. Molto raramente, anzi quasi mai, “sentito”, “ascoltato”, “toccato”, “compreso”, “amato”. E io sono sicuro che più lo si analizza, esibisce, modifica senza consapevolezza, meno esso esiste. La bioenergetica mi ha insegnato che il corpo non mente, ricorda e trattiene le nostre emozioni, e ci indica con chiarezza che cosa non va dentro di noi.
Per una persona transessuale il corpo sembra essere il nemico numero uno da destrutturare e modificare, invece io ho capito che è un validissimo alleato che segue senza contraddizioni le naturali modifiche di cui abbiamo bisogno, a patto di rispettarlo. E che tali modifiche sono frutto di una coerenza e non di semplici nevrosi o proiezioni. Per questo, “transizione consapevole” è il mio mantra, è la ricerca del sé nel corpo, con il corpo.
Quale tipo di percorso hai fatto?
Bioenergetica e Gestalt sono i due indirizzi complementari ai quali faccio riferimento come approccio e percorso di formazione, che sottolineano in particolare il valore del corpo, come strumento per attivare l’energia, per entrare in contatto con se stessi e con gli altri, per far affiorare le emozioni ed esprimerle in maniera intensa e completa; l’importanza dell’esperienza vissuta, più che l’analisi verbale e l’interpretazione; la necessità di operare soprattutto nel presente, ovvero nel qui e ora; il coinvolgimento attivo ed empatico del terapeuta (counselor o psicoterapeuta, a seconda del tipo di relazione d’aiuto) con la sua intuizione, creatività e congruenza.
Quale scuola e quale corrente hai seguito?
Sono iscritto alla SIBiG, Scuola Italiana di BioGestalt® di Milano. “Condividere e trasmettere” riassume la filosofia dei miei due insegnanti, i due fondatori della scuola, Alessandra Callegari e Riccardo Sciaky e si sposa perfettamente con la mia stessa linea di pensiero, ovvero la condivisione di una passione e il voler trasmettere una visione del mondo, della vita, della relazione che è riassunta nel termine BioGestalt®, unione armonica dell’approccio bioenergetico e di quello gestaltico, partendo dalla convinzione che noi esseri umani siamo un tutto corpo-emozioni-mente-spirito, che va conosciuto, nutrito, sviluppato.
Quali sono i principali pregiudizi riguardanti il counseling?
Non mi sento di parlare di pregiudizi. L’importante è fare cultura, e quindi fare anche cultura di Counseling, senza sconfinare in ambiti professionali diversi, ma anzi collaborando fra professionisti diversi e complementari.
Il Counseling, in particolare, è una relazione d’aiuto professionale, il cui obiettivo è il miglioramento della qualità di vita del cliente: ovvero, aiuta le persone sostenendole nello sviluppo delle proprie potenzialità, per migliorare la capacità di autodeterminazione, prendere decisioni, attuare cambiamenti, confidando nelle proprie risorse. È uno spazio di ascolto e di riflessione, nel quale esplorare difficoltà relative a processi evolutivi, modalità comunicative, fasi di transizione o stati di crisi, e rinforzare capacità di scelta o di cambiamento. Proprio per questo può essere utile per accompagnare una persona che attraversa una fase importante di crescita, ma è anche utilissimo per accompagnare chi sta intorno a queste persone: familiari, amici, partner.
Quali sono le tecniche che hai studiato, che preferisci, e più adatte a una persona transgender?
Non posso che ripetermi: per esperienza personale porto la mia testimonianza positiva con la Bioenergetica, in termini generali posso dire che quello di cui abbiamo bisogno è l’esperienza positiva del corpo nonostante gli anni accumulati di disagio e rimandi negativi. Al di là delle tecniche, quello che conta è la relazione, il modo di essere della persona che accompagna e aiuta un’altra persona. Ed è questo che ho imparato e sto ancora imparando. Perché solo un modo di essere davvero empatico, accettante, accogliente, privo di pregiudizi può aiutare l’altro, chiunque sia.
Alcune scuole di counseling propongono lavori con il corpo e una persona T (che magari ha un corpo che genera ancora disforia) potrebbe avere paura a lavorare sotto questo aspetto: che cosa consigli per incoraggiarla?
Come dicevo, è la qualità della relazione che fa la differenza. All’interno di una buona relazione d’aiuto, si possono anche usare lavori corporei – a tempo debito, e sapendoli introdurre con equilibrio e cautela – ma prima ancora il cliente (se parliamo di counseling) deve poter fare un percorso di consapevolezza, che comprende via via anche la conoscenza del proprio corpo. Una buona base di partenza n questo senso è lavorare sul grounding, ovvero sul radicamento, sulla capacità di “avere i piedi per terra”, come si dice in bioenergetica.
Ogni stimolo che viene in contatto con il nostro corpo è percepito dall’organismo come piacevole o doloroso. Non esistono stimoli neutri, perché lo stimolo che non riesce a provocare una sensazione non viene percepito. Noi affrontiamo la vita, fin da quando veniamo al mondo, reagendo a tali stimoli e strutturando per difesa la nostra armatura caratteriale. Una persona transessuale, nella maggior parte dei casi, “memorizza” nel corpo una serie di impressioni sensoriali spiacevoli, che la portano a rifiutare il corpo stesso, a mortificarlo, o modificarlo esasperatamente, intervenendo però solo sulla superficie del problema.
Noi ci sentiamo traditi dal corpo. Recuperare un piacere che possa rendere immediati quegli stimoli che sono in armonia con i ritmi e i toni del nostro corpo vuol dire andare a migliorare lo stato d’animo, e rimanda a impressioni sensoriali positive. Questo porterà ad acquisire una maggiore obiettività, liberandosi dai sensi di colpa della sensazione di non essere amati, accettati, adeguati.
Nella nostra società veniamo nutriti dal senso di colpa: e questo non si riferisce soltanto alla lotta per essere visti per ciò che sentiamo di essere, ma anche al sentimento di ostilità. Gli esercizi di Bioenergetica aiutano a liberare la collera repressa, e a lavorare sulla auto-condanna, incrementando l’auto-accettazione, l’auto-determinazione e l’integrazione di ogni parte di se stessi. Non ha senso rifiutare qualcosa di sé per dare spazio a un’immagine idealizzata, ed è una cosa che ho provato sulla mia pelle, esplorando a fondo le mie proiezioni, le mie nevrosi, i miei limiti. Quando ho dato spazio a ogni polarità del mio essere, ho ritrovato il piacere di vivere, ho smesso di colpevolizzarmi e ho accettato di poter essere felice. Il corpo desidera il piacere, ed è la fonte da cui scaturiscono tutti i nostri sentimenti e pensieri.
Percorso transgender: è qualcosa di medicolegale, o investe soprattutto altri aspetti?
Assolutamente investe tutti gli aspetti della vita di una persona. L’iter medicolegale oserei dire che è la parte più “semplice”, pur nelle sue lungaggini e difficoltà burocratiche e chirurgiche. Essere Transessuali per me è uno status, e ne rivendico da sempre il riconoscimento.
Io non mi sono mai esposto in maniera continuativa politicamente e rimanendo legato a una bandiera associativa GLBT; ho fatto qualcosa, certo, ma i più pensano che dopo la partecipazione al GF mi sia ritirato a vita privata godendo di chissà quali frutti e privilegi. In realtà continuo ogni giorno la mia personale e assertiva battaglia di “uomo in costante divenire” attraverso i miei studi, la formazione continua, l’associazione Camminando di cui faccio parte, il counseling, il coaching, la quotidiana vita di un uomo che ha integrato ogni sua esperienza e continua a raccontarsi, mostrarsi, esporsi a qualunque critica e giudizio, mettendo sempre e soprattutto in discussione se stesso.
Percorsi: li facciamo solo noi persone transgender?
No! Ogni essere umano è in cammino. E chi lo nega vuol dire che gioca la partita della vita sempre e solo in difesa. Ma giocare in difesa vuol dire non fare mai gol. Quindi non avere obiettivi, non rischiare, non crescere, non evolversi.
Segui molte persone transgender? Le segui sotto quali aspetti?
Ho seguito, consigliato e indirizzato centinaia di persone transgender negli ultimi sette anni e ne seguo ora qualche decina tramite i social.
Con l’Associazione e come tirocinante counselor è diverso. La struttura stessa impone più ordine e disciplina, dunque “seguire” in maniera informale, da fratello maggiore, è meno possibile. Sto seguendo comunque come tirocinante tre ragazzi tra i 20 e i 30 anni, in affiancamento ai nostri psicologi e sotto supervisione.
Gli aspetti per seguire una persona sono multidisciplinari. Ognuno è un mondo a sé: come un vestito su misura individuo fin dal primo colloquio le aree sulle quali lavorare per aiutare la persona a essere più radicata e presente nelle sue scelte e decidiamo insieme quale percorso la fa sentire più a suo agio. Il complimento più grande che mi ripaga di ogni sforzo o stanchezza è “qui mi sento a casa”.
Minori e genitori: anche loro vengono seguiti da voi? Se sì, con quali accortezze?
Sì, sono seguiti nella nostra Associazione lavorando in équipe dove un terapeuta segue il minore e un altro terapeuta segue i genitori. Si valuta l’ipotesi di incontri insieme (ove richiesto), e ovviamente i terapeuti si confrontano ciclicamente per mantenere una linea di percorso rassicurante ed efficace per entrambe le parti.
Come si pone il “tuo” counseling sul tema del non binarismo di genere e di orientamento?
Sorrido alla domanda. Non esiste un “mio” Counseling, e il Counseling in generale, di qualunque orientamento, deve portare la persona alla sua personale e totale espressione di sé viva e vibrante. Dunque non esiste assolutamente una “posizione” rispetto al binarismo o al non binarismo, la premessa basilare di un buon Counseling è accompagnare la persona alla completa salute, intesa non come assenza di malattia, bensì come stato di benessere, fisico mentale e sociale. Il Counseling biogestaltico valorizza il diritto alla diversità, l’originalità irriducibile di ogni individuo. Mira al mantenimento e allo sviluppo di questo benessere armonioso, e non alla guarigione o riparazione di un qualsivoglia disagio che sottintenderebbe un riferimento implicito a uno stato di normalità.
Una domanda conclusiva: chi è Gabriele Belli oggi?
Un uomo che continua a guardare la vita con piacevole stupore e illimitata fiducia nel futuro, nonostante la consapevolezza che ogni giorno ci siano prove da superare. Un imprenditore al servizio di una comunità in continua crescita ed evoluzione.