“Velati” è una parola nata in ambito omosessuale maschile per descrivere coloro che, omosessuali, volevano socialmente apparire come eterosessuali.
Oggi “velato/a” si usa anche nel mondo dell’omosessualità femminile, della bisessualità (spesso rivolta a quei bisessuali che vogliono apparire etero nei loro giri etero e gay nei loro giri gay), di varie forme di transgenderismo “part time“, ma anche per chi nasconde una condizione personale, come il crossdressing, il praticare bdsm e altro.
Disforia di genere repressa
Qualcuno sostiene che “velato” sia un termine dispregiativo.
Qualcun altro sostiene che non si dia attenzione alla sofferenza dei velati.
Questo blog ha dato più volte spazio al tema del velatismo e dei problemi (diversi da quelli di chi è visibile) che questa scelta (di visibilità, o meglio, di NON visibilità) comporta.
Differenza tra “represso” e “velato”
C’è il represso (che non sa di essere LGBT o non lo accetta davvero), e c’è il velato (quello che sa benissimo di essere LGBT ed escogita dei modi di vivere sè stesso di nascosto).
Questo può riguardare, ovviamente, sia l’orientamento sessuale, che l’identità di genere.
Il fenomeno dei “Cybertrans”, reso possibile dalla tecnologia
Grazie ai progressi informatici, molti velati/e possono vivere sè stessi anche informaticamente grazie ad account con foto e cognome falso. Amo chiamare questi personaggi col nome di CyberTrans
Ci sono, ovviamente, molte tipologie di Cybertrans: proviamo a illustrarne alcune:
CyberTrans/CyberLGB/CyberTrav che vive da “cishet” e porta avanti quei valori e quei punti di vista
Si tratta di persone totalmente velate nella vita, sia per quanto riguarda l’orientamento sessuale, che l’identità di genere, e che, oltre a portare avanti il punto di vista della persona cisgender eterosessuale, soffrono pesantemente di omotransfobia interiorizzata.
Non è raro vedere questo tipo di cybervelato estremamente diffidente (e spesso denigratoria) verso gli attivisti, visti come dei “dogmatici” detentori di una “verità“ (ad esempio il rispetto delle minoranze) in un mondo che loro considerano “relativo“, esibizionisti e prime donne, li considerano petulanti, e giudicano come “insistenza” il loro essere intransigenti sul rispetto, anche grammaticale, delle persone transgender e in generale LGBT.
A volte se ne escono con frasi del tipo “e basta con sto politically correct! il negro lo abbiamo sempre chiamato negro!“.
Il velato prende spesso, anche informaticamente, le distanze dalla persona LGBT visibile. Ha paura che averlo come amico possa convincere gli altri che anche lui sia LGBT, quindi aggiunge l’attivista solo con l’account farlocco, e lo “usa” solo per parlare di argomenti LGBT e chiarire i suoi personali dubbi identitari.
Non è interessato alla vita delle persone LGBT che aggiunge su fb, ai loro hobby, ai loro contenuti, e interviene solo quando postano qualcosa di LGBT. Per lui, noi attivisti visibili siamo solo una “collezione” di persone, quasi intercambiabili: spesso non ha gli strumenti per cogliere le differenze di pensiero tra noi, e ci immagina, magari “tutti amici tra noi”.
Non vuole realmente essere amico di altre persone LGBT, ma le usa per risolvere il suo “problema” (e l’uso della parola problema che fa la dice lunga sulla sua non consapevolezza), eliminandole (o eliminando l’account farlocco) quando avrà scelto di tornare alla sua vita “normale” (cisgender eterosessuale).
Spesso, non avendo una coscienza politica, con nonchalance dice alla persona LGBT visibile che ha un altro account “serio” in cui non lo includerà, non capendo quanto ovviamente l’attivista provi disprezzo e quasi compassione per il “candore” con cui il velato sputa contenuti di omotransfobia repressa come questo.
Magari l’attivista in questione ha, tra gli amici facebook, quintali di etero, professori universitari, politici, assolutamente fieri o comunque sereni di averlo come amico, cosa abbastanza normale visto che probabilmente usa il suo account come essere umano a trecentosessanta gradi, ma una fobia di essere beccato con le mani nella marmellata spinge il velato a non voler assolutamente essere, col suo account “vero”, davanti a parenti, amici e colleghi, collegato a persone LGBT, ma soprattutto ricevere inviti Fb ad eventi LGBT.
Una volta dissi ad un velato che un sacco di eterosessuali vengono al Milk e sono fieri di essere tesserati, di comparire nelle foto, di lasciare la mail per la newsletter, quindi non si capisce cosa ci sarebbe di male se lui venisse al Milk, e perché dovrebbero pensare che lui sia gay.
La risposta fu brillante “anche molti atei vanno in chiesa, ma la gente penserà che sono credenti, perché non importa cosa sono, ma dove sono”.
Spesso il velato in questione fa fatica a definire sè stesso come persona LGBT.
Penso a tante persone appartenenti alla realtà crossdresser, che ostentano parole come “disturbo” e “diagnosi” (ormai fuori dal DSM V) per parlare di persone transgender, e prenderne le distanze in modo netto.
Si sentono più “forti” dei transgender perché non “hanno la disforia”, senza capire che è proprio la loro scelta on/off che li salvaguarda dalla “disforia”, perchè permette loro di tenere il “controllo” della loro visibilità e non lasciare agli altri il potere di disapprovarli.
Il CyberQueer
Il cyberqueer è una persona che di per sé, apparentemente, non dimostra omotransfobia interiorizzata, anche se il suo velatismo nella vita sembra esserne la prova, anche se, a pensarci bene, il suo velatismo, spesso dipende da fattori come l’appartenere ad una “minoranza di una minoranza” (asessuali, demisessuali, poliamorosi, ftm gay, genderfluid, ftm non med), e al fatto che la sua condizione è talmente tanto sconosciuta che un coming out verrebbe accolto con derisione, o ignorato, anche per il fatto che queste persone, spesso, sono molto giovani o poco influenti socialmente/economicamente, e vengono trattati come ragazzini o come persone mentalmente instabili, e quindi non prese sul serio.
Il CyberQueer aggiunge sui social (in particolare, twitter e facebook) agli amici tutte le persone “dell’ambiente”, gli attivisti sul territorio, i giornalisti, i blogger, e si improvvisa come uno di loro. A causa della poca capacità che si ha, sul web, nel distinguere un vero attivista sul territorio da un vanesio pontificatore tramite status, ad un certo punto il cybertrans entra nel web-circuito degli attivisti, e nessuno fa più caso all’assenza di foto e/o al cognome “amerrigano” e farlocco. Ad un certo punto le sue idee vengono riempite di like da persone, anche autorevoli, del movimento.
Il CyberQueer, di solito, è un minore, oppure ha una dipendenza economica e logistica dalla famiglia d’origine che lo rende simile ad un minore, e a casa è velato, o i genitori hanno riso del suo coming out. Ad ogni modo, ha perso ogni speranza di farsi rispettare nella real life o ha troppa paura, e quindi ha deciso di impiegare tutta la sua grinta “facendo attivismo” sul web, replicando concetti appresi da blog queer, italiani o americani, e soprattutto “intervenendo” come un’ape sul miele quando si scatenano Flames, Shitstorming, guerre all’ultimo like.
Il Cyberqueer aggiunge solo persone dell’universo queer e frequenta solo queste bacheche o pagine, o quelle di chi la pensa in modo opposto (gay binari, femministe transfobiche), e ama intervenire con la sua penna rossa presso le bacheche di blog che, fondamentamente, esprimono un pensiero simile al suo al 99%. Insomma, se questi blogger fossero, ad esempio, i suoi genitori, professori, lui non dovrebbe essere “cyber”, ma potrebbe fare coming out nel mondo vero, tuttavia preferisce sfogare tutta la sua energia per “correggere” quell’uno per cento di divergenza, atteggiandosi a “martire del politcamente corretto”, per dimostrarsi “duro e puro”, ortodosso del “polite”, piuttosto che fasi amici queste persone e chiedere consiglio su come uscire dall’armadio a pc spento.
Molti di questi giovanissimi, inoltre, appaiono spesso saccentoni, e sono carichi di tutto quel mansplaining, o etero-planining, che vivono nella vita reale, dove si presentano da cis-het e quindi sono stati educati ad entrare a gamba tesa su questioni che non vivono per fare “spiegoni” a chi quei problemi li vive e li conosce.
Appena chiedi loro di “partire da sé”, raccontare il loro coming out sul lavoro, o con genitori e partner, si irrigidiscono e cominciano ad offendere, e i loro contributi sono sempre teorici e pieni di citazioni.
E’ importante chiarire che ci sono anche “cyberattivisti” dei filoni avversi al nostro: lesbiche velate agguerrite nell’attivismo transfobico, ad esempio. E’ più una questione generazionale che di visione politica.
A volte, la vita porta queste persone a portare il loro essere LGBT fuori dal loro pc portatile, ma non sempre accade. Per molte persone essere cybertrans o cyberqueer è qualcosa che impegna intere stagioni della propria vita.
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