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Un “esperanto” linguistico tra attivisti LGBT è possibile?

Il cisplaining degli attivisti LGB: un linguaggio comune è possibile?

Gentili readers,
come al solito mi è impossibile parlare della questione senza parlarvi di me, di quando ero un giovane ftm e un giovane attivista.
Le due cose sono coincise nel tempo, so che non dovrebbe andare così, che si dovrebbe fare tanta autoanalisi e tanta introspezione prima di prendere in mano una bandiera o un megafono, ma non siamo sempre totalmente padroni degli avvenimenti delle nostre vite.

Il cisplaining degli attivisti LGBT

Per me non è esistita una fase LGBT feste e locali, e la mia esistenza LGBT è coincisa con l’associazionismo, con l’attivismo, con le quintalate di libri che gli attivisti più adulti mi passavano sperando che mi facessi una coscienza politica, ma in cui cercavo anche risposte su di me.

Non provengo dal femminismo: ai tempi non “si usava“. Ai tempi i giovani transgender leggevano gli autori e (prevalentemente, ahimé) autrici transgender, ed è su quelle pagine che trovai un linguaggio per me nuovo, ed inedito, per parlare in modo disambiguo e chiaro di ciò che ero fisicamente e di ciò che ero al di là del mio aspetto e della biologia.

Molti autori (quasi sempre autrici) transgender, Mirella Izzo, Monica Romano, Martine Rothblatt, Diana Nardacchione, ma anche tanti autori ed autrici cis, che parlavano di storie transgender, oppure persone che, ahimè, venivano dal mondo della psicologia, mi introdussero ad un linguaggio per cui si usava “sesso” per parlare della realtà genetica e biologica dei corpi (di tutti gli animali, umani e non), e “genere” per parlare invece dell’identità della persona rispetto alla tematica dei generi.

Per una maggiore disambiguità, aggiungo che maschio e femmina riguardavano i sessi biologici (come, appunto, anche nel mondo animale), uomo e donna le identità di genere.

Un altro concetto, soprattutto a me che provengo dal percorso ftm, mi fu di molta utilità per capire me stesso nei miei primi anni di percorso: quello di ruolo di genere.
Molte persone, spesso giovanissime e non molto scolarizzate, che credevano di essere portatrici di una tematica transgender, spesso persone in direzione ftm, non avevano ben compreso la differenza tra “identità di genere” e “ruolo di genere”, ed hanno confuso una tematica relativa ai ruoli e al desiderare di poter incarnare un ruolo sociale, precluso o quasi alle donne per ragioni di binarismo, con l’avere un’identità di genere maschile. Le prime sedute del percorso psicologico servono proprio a capire se la persona è caduta in questo errore.

La differenza tra ruolo di genere e identità di genere è complessa da spiegare a chi non ha preso parte al dibattito che ha messo questi temi al centro della riflessione, anche perché, al di fuori di queste nicchie di attivismo, chi è cisgender (“non transgender”, termine che uso assolutamente in modo neutro, come ha sempre fatto la letteratura transgender, prima della moda intersezionale) ha un’identità di genere, coerente col sesso biologico, che dà per scontata (così come molti etero danno per scontato il loro desiderio eterosessuale), ma forse questa  differenza può essere spiegata con degli esempi:
una donna che desiderasse tanto diventare ufficiale dell’esercito, ma che si identifica come donna, che è arci-stufa delle disparità di genere, è portatrice sicuramente di una tematica di ruolo di genere, e non di identità di genere. E’ quindi una donna cisgender, e questo non toglie nulla alle sue ammirevoli battaglie per l’emancipazione dai ruoli: semplicemente non è transgender, e non ha disforia di genere.
Il fatto che ad un uomo piaccia il calcio riguarda i ruoli di genere. Il fatto che ad una donna possa piacere truccarsi, che sia meno esplicita nel suo desiderio sessuale, riguarda i ruoli di genere, e sono comportamenti e aspettative che variano nei tempi e nei luoghi, socialmente costruiti, e, si spera, anche in evoluzione.
I ruoli di genere sono quindi una tematica che è “patrimonio dell’umanità” e non riguarda sicuramente le persone transgender e basta, anche se riguarda anche loro.
Un ftm, ad esempio, si è dovuto prima scontrare con le aspettative sociali che lo hanno riguardato per via del suo sesso biologico (le persone che lo ricordavano si aspettavano un ruolo di genere al femminile), poi con le aspettative sociali che lo hanno riguardato per il suo genere d’elezione (quelle persone che, visto il suo coming out e/o transizione medicalizzata e non, si aspettavano da lui un’adesione al modello maschile in tutti i suoi stereotipi).
Le persone cis e quelle transgender avrebbero tanto da dire sui ruoli di genere, sui tranelli (noi transgender lo chiamiamo “il canto delle sirene“) in cui rischiano di cadere sia persone del mondo cis che persone del mondo transgender, sugli stereotipi, ma anche sulla “legittimità” dei ruoli (l’obiettivo è che ogni espressione di genere possa essere lecita, e non solo le polarità più “rosa” e più “celesti”, e che non ci sia più bullismo ed ostilità verso chi tende a ruoli “differenti”, e non abbiamo di certo come obiettivo la cancellazione di ogni espressione “binaria” per diventare tutti “fluid).

Il cisplaining degli attivisti LGB un linguaggio comune è possibile

Torniamo però all’identità di genere, al genere d’elezione, e a concetti che noi transgender, nella nostra saggistica e letteratura, non priva di riferimenti convenzionali sociologici esterni alla nostra subcultura, abbiamo dato per assodati per anni per generare la nostra cultura e comunicare tra noi con un “file universale d’interscambio”.
Altre correnti di pensiero, ad esempio alcuni filoni di femminismo, soprattutto i femminismi “del determinismo biologico”, non pongono l’accento sulle differenze tra identità di genere e ruolo di genere (una differenza che invece era ben chiara alle pioniere del femminismo, che sono state “maestre”, dirette e indirette, delle prime generazioni di attiviste transgender), e ciò riduce, ai loro occhi, il percorso transgender a una mera ricerca di un nuovo “ruolo sociale” (o sessuale), ottenuto “rinnegando” la biologia, compiendo una “connivenza” con gli appartenenti al sesso opposto (critica rivolta soprattutto se non esclusivamente agli ftm, argomento di cui ho trattato ampiamente nel blog in passato, vedi transmisandria).
Se però il mondo femminista “biologista” si mettesse in “ascolto” su cosa è l’identità di genere, come concetto indipendente dal ruolo (ruolo che del femminismo è, giustamente, oggetto di studio), forse noi transgender sembreremmo meno dei “personaggi in cerca d’autore”, privi di riferimenti culturali, di nostri autori e intellettuali di riferimento, e bisognosi di sentirci dire “Studia!”, dove quella parola invita a studiare gli autori di un’altra subcultura (ad esempio, quella femminista), come se non ce ne avessimo di nostri.

L’identità di genere è un concetto che contiene una parola chiave che sembra essere rimasta inosservata negli ultimi due anni: identità.
Non si tratta semplicemente di essere portatori di un genere d’elezione, magari non corrispondente a quello che si attende da un sesso biologico: si tratta di identità, identificazione, rivendicazione.
Non poche persone potrebbero “apparire”, agli occhi di un attivista transgender, abituato a scorporare il sesso biologico dal resto, di un “genere” divergente dal sesso biologico. Parlo di persone che conducono felici vite cisgender, e a cui non verrebbe mai in mente di definirsi altro rispetto a donna/femmina e uomo/maschio, persone probabilmente persino eterosessuali (non che questo c’entri, ma giusto per rafforzare il concetto).
E’ l’identità che fa la differenza nell’avere o meno una tematica di “identità” di genere, ovvero l’identificazione non tanto col sesso opposto (e questo sgombra il campo dagli attacchi di chi pensa che una persona transgender neghi la sua origine biologica, il suo sesso biologico di maschio o di femmina), ma col “gruppo” sociale degli uomini o delle donne (termini che, come da disclaimer, questo blog usa per indicare le identità di genere e non i corpi).

Forse qualcuno (e questo dipende, ahimè, dalla recente confusione tra subcultura transgender e subcultura queer, dovuta anche a chi è sostenitore/trice della teoria queer essendo nello stesso tempo anche una persona trans) pensa che la disforia di genere possa portare una persona a negare il suo sesso biologico, spinta dal desiderio di non essere transgender, di essere semplicemente del sesso corrispondente al proprio genere d’elezione, ma non è così.
Quando ero molto giovane, i miei strumenti culturali di allora mi spinsero a darmi risposte incoraggianti: non ero io ad essere sbagliato, ma la società: erano loro che dovevano “imparare” a vedere in me un uomo, ad assecondarmi dopo la mia dichiarazione di appartenenza al genere maschile, e che non c’era nulla di sbagliato in me. La natura, a mia detta, creava persone di biologia xx che erano donne (come identità di genere), e uomini (persone come me, uomini transgender), e che non c’era nulla di sbagliato negli uomini xx (uomini che geneticamente hanno i cromosomi xx, come le donne cisgender), ma che andava fatto un lavoro culturale affinché gli uomini xx siano sempre più visibili e inclusi nella società, con una corretta socializzazione coerente col genere d’elezione, e nei luoghi di lavoro.
Il mio motto di allora era: non siamo contronatura, siamo controcultura.
Oggi, forse perché ho imparato a tenere a bada la disforia, e a “sopportare” tutte le narrazioni realistiche che tengono conto del fatto che il mondo fuori dalla nostra nicchia ragiona su parametri estetici e biologici, sono maggiormente portato a considerare ragionevole la posizione di chi ha difficoltà a barcamenarsi in quest’universo di termini e convenzioni e di portare attenzione al non “misgenderare” (rivolgersi declinando coerentemente col sesso biologico e non col genere d’elezione) le persone transgender, essendo stato educato per un’intera vita a non “misgenderare” le persone cis (chi non ha mai raccontato, con imbarazzo, di aver dato, per errore il maschile ad una vecchia signora, accorgendosi solo dopo che era una donna, e considerare tale gaffe come il peggiore affronto che si potrebbe fare ad una dolce signora?).
Ecco, se dovessi descrivere oggi la disforia, almeno la mia, non la descriverei come un “delirio genetico” che mi porta a pensarmi come un appartenente al sesso opposto al mio (non mi descriverei mai come un maschio biologico, e se lo fossi credo che questo blog neanche lo avrei mai aperto!), ma come l’essere in bilico tra il desiderio di essere percepito come un qualsiasi altro uomo e la consapevolezza, politica e personale, che spesso non sarà così, e che mi è richiesto un “ragionevole” sforzo per fare cultura sul mio tema (se non io per me, chi per me?).

A qualcuno non piacerà che si usi maschio/femmina per indicare i corpi, e uomo/donna per indicare i generi (d’elezione per noi transgender, generi e basta per tutti gli altri). Tuttavia, ritengo necessario che si decida un linguaggio comune, non dico tra LGBT e femministe, ma almeno tra persone LGBT.
Onestamente non so se altri percorsi e altre subculture hanno chiamato, magari, uomo e donna i corpi, usando maschio e femmina, magari, per indicare dati più culturali, o di attitudine sessuale. Un mio amico gay di 43 anni (quasi di un’altra generazione rispetto alla mia, non che le cose siano molto cambiate) tiene sempre a precisarmi che la parola “maschio” l’ha sempre urtato, poiché nel suo percorso di gay, bullizzato dai 5 ai 20 anni, si era accettato come uomo E gay, distaccandosi dall’identità di “maschio”, termine che i suoi coetanei usavano per descrivere l’uomo eterosessuale aderente al machismo.
Anche una mia amica femminista ha sempre associato a “femmina” dei concetti negativi, quasi “animali” e di disprezzo, e si è sentita invece valorizzata quando ha cominciato a pensarsi come “donna” (e infatti penso che in questi casi si possa parlare di un percorso di identità di genere in realtà non dissimile a quello che fanno i transgender, in cui la persona cis prende consapevolezza del suo genere e del suo valore al di là della semplice appartenenza biologica).

Penso che sia difficile, per chi ha sempre dato a “uomo” e “maschio”, a “donna” e “femmina”, dei significati diversi rispetto a quelli elaborati dalla sociologia in generale, e dalla subcultura transgender in particolare, ma con un piccolo sforzo possiamo trovare un linguaggio comune che sgombri il campo da continui equivoci che ci distolgono da ciò che ci unisce facendoci concentrare su ciò che ci divide o, peggio, su ciò checrediamo” ci divida.

L’epoca intersezionale, su cui sapete bene cosa penso (l’intersezionalità doveva essere un’opzione, è invece diventata obbligatoria e adesso viene quasi denigrato chi invece vuole concentrarsi solo sul suo tema o su alcuni temi), ha creato gravi ingerenze, per le quali diverse persone cis, talvolta eterosessuali, hanno ritenuto legittimo e accettabile dire che una donna transgender non è una donna e che un uomo transgender non è un uomo (cisplaining).
Non voglio entrare nel merito del fatto che questa cosa è stata fatta poiché le loro subculture usano in modo diverso “uomo, donna, maschio e femmina“. Io penso che in alcuni casi ci sia un atteggiamento che sarebbe errato definire “transfobia”, e che sarebbe più corretto definire come un’avversione alla tematica transgender, che tocca tanti nervi scoperti della riflessione sui generi portata avanti da persone cis, omosessuali ed eterosessuali che siano.

Noi transgender reclamiamo la “presa di parola transgender”, sul nostro tema, che è quello dell’identità di genere, del genere d’elezione, e rifiutiamo ogni tentativo di sovradeterminazione da parte di altri soggetti politici e non.

Tuttavia, a parte casi estremi, di persone spinte più dall’avversione per la condizione transgender in generale, che dalla voglia di argomentare, c’è un’enorme “zona grigia” di intellettuali LGB che portano avanti istanze simili a quelle che portiamo avanti noi, punti di vista simili a quelli che portiamo avanti noi, e con cui sarebbe stupido non dialogare per un banale problema di linguaggio.

La confusione tra sesso, genere, maschio, uomo, femmina, donna, ha creato un cul-de-sac di incomunicabilità che ha fatto sì che si arenassero battaglie importanti, come quella del riconoscimento anagrafico di persone in percorsi transgender non canonici e non medicalizzati.
Se i termini non sono comuni e condivisi, qualcuno potrebbe pensare che un ftm pensi di essere di “sesso” maschile, o che voglia essere riconosciuto, magari al livello sanitario, come appartenente genetico al “sesso” maschile, e questo equivoco di fondo non porterà nulla di buono, se non ad arenare le richieste di quell’ftm, magari portatore di un corpo xx ancora identico a quello delle donne (persone che come corpo sono femmine, esattamente come gli ftm, ma che diversamente dagli ftm sono, come genere d’elezione, donne e non uomini), che però vuole sbarazzarsi di un imbarazzante nome anagrafico che si porta dietro nel mondo del lavoro, alle poste, per ordinare un pacco per corrispondenza, alle riunioni di conominio e così via.

Se il linguaggio non è condiviso, se non riusciamo, solo al fine di comunicare, a chiamare “uomo e donna” i generi d’elezione, “maschio e femmina” i corpi biologici, non riusciremo neanche a comprendere le relative letterature.

Mi rendo conto di risultare presuntuoso a chiedere che lo sforzo venga da fuori, che sia chi ha chiamato sempre maschio/femmina i generi e uomo/donna i corpi a venire incontro ai transgender. Non dico che la soluzione sia quella, anche se la troverei semplice e funzionale dal mio punto di vista: potremmo anche trovare termini nuovi, ma prima di perderci in un caleidoscopio di nuovi termini, magari importati da qualche narciso influencer d’oltreoceano, penso che si possa fare uno sforzo per comprenderci a vicenda:
una donna transgender non sta dicendo nessuna eresia biologica se si definisce donna, visto che nella subcultura transgender “donna” riguarda il genere d’elezione. Non sta togliendo nulla alle donne biologiche e cisgender.
Allo stesso modo, non c’è bisogno di inorridire se un uomo transgender ha avuto un figlio nel modo consentito dalla sua biologia, perché non è un “maschio” ad aver partorito.

Insisto a portare esempi per i quali trovare un linguaggio comune porterebbe a smussare ciò che ci divide per tornare a dialogare sui temi comuni.
Sono un testardo, al limite del persecutorio, nel cercare dialogo con chi apparentemente è portatore o portatrice di visioni divergenti da quelle che ho portato io in passato e forse porto adesso, ma se c’è una cosa che mi hanno sempre riconosciuto è che questi enormi sforzi a cui mi sottopongo alla fine un risultato lo portano, che sbattendo la testa su un portone mille volte, prima o poi si apre.

So che qualcuno è in ascolto, ne ho già avuto segnali nelle ultime settimane, e so che c’è qualcuno che leggendo queste mie parole non penserà che siano un “sovranismo” transgender, una richiesta di omologazione alle parole che abbiamo fatto nostre e rielaborato. So che qualcuno tenderà la mano, e che capirà che non vuole essere una richiesta di apprendere la nostra lingua, ma del creare insieme un esperanto linguistico che ci porti a trovarci a metà della distanza tra noi, un lavoro lungo, non privo di momenti dolorosi, in cui si apriranno reciproche ferite personali e politiche, ma un lavoro mai più di adesso, con questo oscuro clima politico, necessario.

Magari le mie parole si perderanno nel cyberspazio e io sarò uno dei tanti che si è svegliato presto per il caldo e ha delirato su un blog, ma se non è così, se qualcuno dei miei lettori, magari tra quelli che hanno messo il “follow” per monitorare questo “queer” (queer?) dalla testa calda, trovi queste parole interessanti, e possa pensare che questo folle lavoro che propongo, che durerà inevitabilmente mesi e stagioni politiche, sia utile e possa portare qualcosa di buono.

1 commento su “Un “esperanto” linguistico tra attivisti LGBT è possibile?”

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