Dopo gli attacchi al comunicato stampa del Coordinamento Attivisti Transgender Lombardia, mi chiedo se sia stato compreso il contenuto (e le intenzioni) del comunicato.
Il 22 giugno, come “Coordinamento Attivisti Transgender Lombardia“, abbiamo pubblicato un comunicato stampa, che riprendeva i temi che alcuni di noi avevano discusso, qualche giorno prima, all’interno del laboratorio del Circolo Culturale TBIGL Rizzo Lari (ex Harvey Milk), chiamato “La presa di parola transgender“.
I temi del laboratorio erano stati principalmente tre:
– chi dovrebbe “prendere parola”, politicamente, come rappresentante della comunità, e quali requisiti di visibilità questa persona dovrebbe avere
– se esistono davvero istanze comuni tra persone transgender medicalizzate e non medicalizzate, e persone di identità di genere canonica e “non binary”, tra persone che vogliono rendere socialmente visibile il loro essere transgender e persone che desiderano proseguire in una condizione di velatismo
– come arginare il fenomeno dei “cybertrans”, ovvero il fatto che ormai influencer e presunti interlocutori sono persone che fanno un attivismo “web” spesso non mostrando il volto e usando cognomi “d’arte“.
Dopo un importante confronto, iniziato in quella sede, e continuato anche dopo, il Coordinamento ha prodotto il comunicato, scritto da una delle penne più acute del team, e condiviso e firmato da tutti i componenti (me, Laura Caruso, l’avvocato Gianmarco Negri, Antonia Monopoli, Monica Romano, Gabriele Belli).
Il comunicato aveva avuto inizialmente un notevole successo, condivisione dei concetti espressi, complimenti per il coraggio, ma, a causa di uno status facebook di un esponente del pensiero queer, la pagina del Comunicato è stata infestata da alcuni personaggi, prevalentemente con account fake, che hanno insultato i contenuti del comunicato, e le persone che lo avevano sottoscritto, spesso anche con attacchi personali e body shaming.
Non voglio soffermarmi sull’attivismo 2.0, che spinge a metodi così poco ortodossi e che violano le regole basilari dell’educazione: la cosa che è saltata maggiormente all’occhio è che la “furia queer“, atta a mettere il bavaglio al Coordinamento, contestava pensieri che in quel comunicato non erano mai stati scritti.
Tra un “fate schifo” e un “vomito a spruzzo“, chi contestava il comunicato, attribuiva concetti che noi stessi, avendolo riletto più e più volte, non abbiamo trovato, come la presunta esclusione delle persone non med e non binary, esclusione che sarebbe stata assurda, visto che due esponenti del coordinamento, io e Laura Caruso, siamo transgender non med.
Il comunicato partiva dal fatto che è stato prodotto dopo un percorso in cui ci siamo interrogati, come volontari ed attivisti, sul “se” fosse possibile una battaglia comune tra persone che condividono di certo un percorso “non cisgender“, ma che hanno condizioni personali diverse, da vari punti di vista: non tutte le persone “non cisgender” dichiarano, ad esempio, di convivere con una “disforia di genere“, che riguardi il corpo o il riconoscimento sociale.
Non tutte, inoltre desiderano un cambio anagrafico: alcune di queste, ad esempio (penso alle persone che si definiscono “non binary” o “genderfluid”) , hanno come principale istanza il riconoscimento del “terzo genere” sui documenti.
Altri ancora non hanno e non desiderano avere “in agenda” dei disegni di legge per rendere più vivibile l’esistenza delle persone T, perché, essendo velati e convinti a rimanerlo, non hanno bisogno di un riconoscimento anagrafico, che nel loro caso sarebbe addirittura indesiderato.
E’ un periodo storico in cui una certa “barricata queer“, composta da persone cis e trans, e da persone che a tratti si definiscono trans e a tratti no (sfruttando una moderna definizione “ad ombrello“, che permette di star sotto a chiunque abbia una semplice tematica di ruoli di genere), sta proponendo delle precise visioni sul tema delle donne (pro sex working, pro GPA), spacciandole per una “visione trans”, e facendo questo incattivisce sia le femministe radicali/della differenza, e sia quelle persone trans che da questa conventicola queer vogliono predere le distanze e, nel tentativo di fissare un rigido spartiacque tra trans e queer, lo fissano sulla medicalizzazione o addirittura sull’intervento ai genitali.
Alla luce di questo, il Coordinamento ha proposto qualcosa che il confine provava ad ampliarlo: non il binarismo, nè la medicalizzazione a rendere valido/a un interlocutore/trice politico/a sui temi transgender, bensì la visibilità offline come persona T.
Quest’affermazione, che sembra quasi ovvia, che è stata sempre ovvia nell’attivismo 1.0, ovvero che gli attivisti devono essere visibili per poter rappresentare anche chi non lo è, ha causato, nell’epoca 2.0, sgomento e un frullato di insulti.
Non è solo una questione di principio, che da sola basterebbe a giustificare questa posizione (visto che non si sta parlando di “chi è trans e chi no“, ma di chi “dovrebbe rappresentare le istanze trans con le istituzioni“), ma anche una questione di “comprensione” delle problematiche e delle esigenze che si devono rappresentare, comprensione che, purtroppo, può essere possibile solo se certe situazioni le si vive in prima persona.
E’ stato, a mio parere, proprio il fenomeno dei “cybertrans“, ovvero persone che, chiuso il portatile, tornano a vivere vite da cis, usando il nome anagrafico ed avendo un aspetto ben conforme alle aspettative legate al proprio sesso di nascita, a far abbandonare battaglie importanti come una legge che estenda il cambio anagrafico anche ai non med e una legge contro la transfobia che tuteli le persone T nella professione e nella vita quotidiana.
Per chi, pur essendo intimamente davvero una persona trans, le problematiche della vita trans “offline” sono solo un racconto estrapolato da meme e blog “anglofoni”, le istanze non possono che essere nebulose e annacquate in un “senso di giustizia” generale, in un calderone di altri temi per cui si richiede, vagamente, una maggiore sensibilizzazione sociale, ma senza nessun progetto concreto.
Si può apprendere un sublinguaggio, costruirci sopra un’impalcatura di termini, per comunicare con altri che, quando accediamo ai social tramite il nostro account “trans”, ci sembrano simili a noi, e possiamo anche capirci tra noi, ma se poi “da persone transgender” non abbiamo un vero e proprio contatto con la realtà offline, ci sembrerà superfluo rendere quel linguaggio comprensibile per chi LGBT non lo è, e vive in un mondo fatto di persone XX che sono femmine e di persone XY che sono maschi.
Il fenomeno “cybertrans”, inoltre, fa si che le persone e la loro presenza sul web non sia collocata nel tempo e nello spazio, e sia poco comprensibile, da fuori, se si tratta di un attivista formato oppure di una persona bisognosa d’aiuto che ha aperto un account l’altroieri, ma nonostante tutto pensa di essere nella posizione di giudicare come “inefficaci” gli attivisti e le associazioni sul territorio.
Sarà comunque riempito di una pioggia di like da chi è troppo pigro per andare al di là di un link che ha postato o di una foto, o di un meme, che ha pubblicato.
E, ovviamente, visto l’andazzo dell’attivismo queer 2.0, saranno proposti bavagli per chi ha idee diverse dalle loro, ci sarà un serpeggiare di contatti privati di oscuri personaggi che “consiglieranno” di non invitare tizio o caio al prossimo evento, o a parlare nelle scuole, o sul palco del Pride.
Concludo: non sarà facile da digerire per le matricole del cyberattivismo, ma tutti i lavori, anche quelli non retribuiti come l’attivismo, richiedono una gavetta, un periodo in cui stare in silenzio può essere l’occasione di ascoltare senza impegnare tempo e pensieri a elaborare la risposta da dare, prima ancora di aver capito cosa si è appena ascoltato, e giusto per “esserci”.
Nel mondo del web 2.0, invece, come dice un antico proverbio calabrese, “ogni testa è tribunale“.