Note sull’essere transgender non medicalizzato/a

Non med

Gentili lettori,

mi hanno spesso chiesto di parlare di cosa significa essere transgender e “non medicalizzati“. 
Io non sono molto favorevole ad esprimermi se la richiesta arriva sotto questi termini.

Quando si usa un “non”, tacitamente e in modo strisciante, si lascia intendere che quel non faccia divergere da una norma, da una convenzione, e che quindi si debba giustificare un’identità o condizione.

Il fatto che non esista un termine che non contenga un “non” per descrivere i transgender che “non” compiono una transizione medicalizzata, lascia intendere che ci si aspetta che tutti i transgender percorrano quell’iter, e che tutto il resto sia eccezione.

Eppure i transgender sono esistiti da sempre, da molto prima che la scienza desse la possibilità di agire sul proprio sesso in modo da renderlo funzionalmente ed esteticamente simile a quello opposto, ovvero a quello che molti transgender sentirebbero maggiormente appropriato per se stessi.

Parlando dei transgender del passato sarebbe superfluo definirli “non medicalizzati”, ma ora che la possibilità di medicalizzazione esiste, viene data per scontata, e viene considerato bizzarro che una persona non desideri usare questa possibilità.

Vi è anche spesso una forma di delegittimazione delle persone transgender del passato, spesso rivendicate da femministe, gay e lesbiche, a prova che comunque ancora una volta la medicalizzazione (anche nel caso fosse impossibile per il fatto che all’epoca non esistesse) rimane l’unico strumento per rendere credibile una persona T.
Quando non presente, si fa leva sul “ragionevole dubbio” che queste persone non fossero trans ma solo omosessuali (uomini e donne) in cerca di conformismo sociale come etero socializzati nel sesso opposto, o di donne in cerca di un’emancipazione che potevano avere solo in panni maschili (teorie valide per alcuni di questi personaggi, ma non per tutti).

Non med

In un mondo non burocratizzato come quello del passato, e il cui binarismo dei ruoli rendeva più facile il “passing” di una persona non medicalizzata (si pensi ad Albert Nobbs), queste persone (a cui spesso bastava cambiare città per cambiare socialmente genere) erano molto più felici delle persone T di oggi, il cui nome anagrafico appare stampato pure sulla tessera della Coop.

L’esigenza della medicalizzazione per dare credibilità a una persona T , chi danneggia?
Apparentemente colpisce solo per persone non medicalizzate, ma ad essere colpita è l’intera comunità transgender.

Cosa significa essere transgender? E’ transgender colui che , nato di un sesso genetico, manifesta un’identità di genere che, secondo la norma statistica, è in “disaccordo” col suo sesso genetico.

Molte persone transgender vivono questo “disaccordo” in modo “disforico“.
Talvolta la disforia ha una natura maggiormente personale (il disagio è col proprio corpo, che la persona T considera non appropriato a rappresentare la propria identità di genere), talvolta è più sociale (la persona T soffre il suo mancato riconoscimento come appartenente al genere d’elezione), talvolta tocca altri aspetti (solo caratteri sessuali secondari, o solo primari, o la sfera sessuale, o il nome anagrafico), talvolta vi è la compresenza di tutti questi aspetti “disforici”.
Inutile e di stampo discriminatorio delineare uno spartiacque tra vissuti disforici riconducibili alla condizione trans e invece casi in cui la persona non va considerata trans.

In base al tipo di disforia che una persona transgender vive, essa “sceglie” che tipo di percorso fare, di cambio di immagine, di eventuale medicalizzazione, di visibilità.
Ho messo “sceglie” tra virgolette perchè la scelta è sempre apparente, ed è dettata dalle pressioni che la disforia della persona fa alla persona stessa, spingendola a muoversi in una direzione o nell’altra.

In alcune persone la disforia spesso varia anche nel tempo: più una persona si sperimenta e verifica come possibile il riconoscimento del proprio genere (magari anche iniziando col presentarsi come appartenente al proprio genere anche solo virtualmente, all’inizio), più aumenta la disforia quando torna a sentirsi percepito come appartenente al sesso genetico (ma questo non succede a tutte le persone T, alcune hanno una disforia perenne e che si manifesta in tenerissima età).

Di solito chi delegittima i transgender non medicalizzati lo fa perché ha una visione del tutto corporea della condizione trans.
La persona trans mft per lui è un maschio che si sente femmina e che diventa femmina.
Per la persona che esprime questa visione, e che di solito non riconosce la differenza tra sesso e genere, e respinge il concetto stesso di identità di genere, la persona trans “si sente” (quindi  un soggettivo percepire) e che “diventa” (quindi a renderla “trans” è il cambiamento del corpo) donna.
Questa visione non delegittima solo i non medicalizzati ma tutte le persone trans, perché se nega ai non medicalizzati di definirsi persone transgender, d’altra parte definisce trans le persone medicalizzate, ma per il motivo sbagliato, quindi si tratta di una visione, in buona o cattiva fede, con un buon contenuto di transfobia.

La cosa strana è che questa visione è condivisa anche da alcune persone transessuali vecchio stampo, le quali vogliono “escludere” dalla T chi ha fatto percorsi diversi dal loro, sminuendo un tipo di disforia diversa (come se lo stendardo dell’essere T non fosse la fierezza ma la cattolicissima gara a chi soffre di più) e pensando che l’istanza principale di chi non prende ormoni non sia tanto il riconoscimento della propria identità, ma quasi il voler stare per forza sotto l’ombrellone T.

Questo fa si che spesso le persone non medicalizzate, che di certo lottano per il riconoscimento della propria identità di genere, e non certo per avere un patentino T, abbiano più successo nel mondo esterno alla comunità LGBT, in cui una persona accetta o non accetta, senza tante speculazioni filosofiche o pretese che una persona faccia una medicalizzazione di cui l’etero medio o media non è neanche a conoscenza.

Il primo passo per le persone non medicalizzate che desiderano fare rivendicazione politica sarebbe quello di trovare un termine che le definisca senza usare un “non“, senza considerarle una “costola” di qualcos’altro.
Un mio collega tamarro mi spiegava che nell’ambiente dei tatuatori esiste un termine gergale che definisce in “non tatuati”, ormai in minoranza…non vorrei che quando nasce qualcosa di nuovo, che poi diventa maggioranza, ad essere definiti con il “non” e a doversi giustificare siano coloro che “non” fanno qualcosa, che questo qualcosa sia tatuarsi o medicalizzarsi non importa.

Credo che le persone T non medicalizzate, e non di certo solo io, che ormai invado i vostri schermi da un decennio, debbano iniziare a raccontarsi, senza porre l’accento sul fastidiosissimo modo in cui vengono discriminate internamente (fatto verissimo, ma che oscurerebbe l’opportunità di farsi conoscere senza porre sfumature buie e polemiche), ma raccontando come è possibile essere socializzati per il proprio genere d’elezione, intessere amicizie, relazioni con persone attratte dal proprio genere e non dal proprio sesso genetico, trovare un compromesso con la propria disforia, essere visibili in quanto persone T nonostante un passing non eccellente (questo però non è sempre detto: conosco persone non medicalizzate, soprattutto MtF, con un passing migliore di persone in ormoni ed operate).

Forse le persone non medicalizzate hanno anche una grande opportunità nell’educazione sociale, e la loro involontaria risorsa è proprio io “non passing“.
Se il non passing, da un certo punto di vista, genera sofferenze a mancanza di riconoscimento per quello che si è, esso pone un dilemma etico: per essere rispettati per il proprio genere dobbiamo “sembrare” di sesso coerente col nostro genere?
Di certo se questa discrepanza genera una sofferenza personale, allora è giusto procedere con un cambio di immagine a volte aiutato da ormoni e chirurgia, ma quando la persona non lo ritiene necessario, utile, strategico, “deve” farlo per forza, se vuole il riconoscimento della sua identità di genere?

Se la persona non medicalizzata, quindi, viene riconosciuta per il suo genere da amici, parenti, familiari, colleghi di lavoro, e chiunque “sappia”, è possibile che sia “travisata” da un occhio estraneo (se non ha un buon passing), ma questa condizione, che puo’ arrecare sofferenza e disagio, puo’ rappresentare un’opportunità, ovvero non dimenticarsi del problema sociale del binarismo dei ruoli, ovvero del fatto che, dal momento in cui si viene percepiti di un certo sesso biologico, ci si aspetti determinati comportamenti.

Una persona non medicalizzata, che non sempre viene riconosciuta per il proprio genere, sarà quindi sempre più sensibile al problema del binarismo sociale rispetto ai ruoli di genere.

Un altro punto interessante del percorso non medicalizzato e del “non passing” è l’essere visibile in quanto persona T.
Ammettiamo che una donna T non medicalizzata sia visibile in quanto donna non biologica e una T medicalizzata no (come detto sopra, non sempre questo è vero).

La donna T che appare come tale sarà sicuramente svantaggiata se il suo obiettivo è integrarsi in un mondo binario, ma potrà rivendicare la sua differenza rispetto alle donne biologiche e la sua particolarità di donna T, rivendicarla personalmente e politicamente.

Il discorso ha più senso se si parla di Ftm, visto che la transizione tramite testosterone cancella ogni traccia di androginia nel corpo della persona, rendendolo, forse a volte a parte la stazza (ma non sempre, ci sono ftm che di base sono alti e “fisicati”), identico ad un corpo maschile da vestito.
Personalmente ho fatto della non medicalizzazione il mio percorso perché, pur definendomi di identità di genere maschile (non fluida, non intermedia, non “altro”), io considero il mio percorso di vita totalmente diverso da quello di un uomo genetico, e non voglio che la mia immagine possa cancellare questo mio vissuto.
In poche parole, io sono di genere maschile, ma non sono, nè voglio sembrare, di sesso maschile. Non mi interessa sembrare nato maschio, costruire un’infanzia da maschio che non ho avuto, perché ciò che sono (compresa la mia lotta antibinaria sul tema dei ruoli di genere) lo devo al mio particolare percorso di vita, diverso da quello di un uomo genetico.
Alcuni di voi direbbero “a questo punto perché non ti vesti da donna e vivi da donna”?
Eh no. Io rivendico la mia diversità dall’uomo genetico (sesso maschile e genere maschile) ma anche dalla donna genetica (sesso femminile e genere femminile), quindi se mi “spacciassi” come femmina e donna, emulandone immagine e comportamenti, farei un torto a me e mistificherei.
E’ importante chiarire che il mio non rinnegare l’essere un uomo T e non Cis non deve lasciar pensare che a me stia bene ricevere il genere grammaticale femminile o essere considerato “altro” dall’essere uomo, perchè un uomo T è un uomo quanto quello cis. Non è quantitativamente meno uomo, ma è qualitativamente un uomo diverso (ma sono diversi anche gli uomini cis tra di loro).

Non mi aspetto che tutti capiscano il mio percorso, e preciso che il motivo per cui IO non sono medicalizzato non è lo stesso che spinge altri a non essere medicalizzati (chi è spinto da motivi spirituali, chi da motivi di salute, chi da motivi di visibilità, chi non ha alcuna disforia col corpo).

Cio’ che è importante e che chi non percorre la via della medicalizzazione ha lo stesso diritto di riconoscimento della propria identità di genere, perché non è l’estetica che ci rende meritevoli del rispetto, e il non “sembrare” non legittima gli altri (soprattutto se attivisti) a non dover rivolgersi a noi in modo corretto, e non per galateo o per farci un piacere, ma perché è loro dovere di attivisti LGBT, se si definiscono tali.