Gentili lettori.
Oggi voglio affrontare il vero punto critico che deve affrontare una persona transgender non medicalizzata: ovvero la sua identità di genere e il suo riconoscimento sul posto di lavoro.
Ricordate quando ho scritto che, da quando vivo al maschile, ho “fatto transizionare” la società che mi circonda verso un percorso di inclusione e comprensione delle tematiche transgender e, quindi, anche della mia condizione?
Come la transizione fisica richiede degli step, anche quella sociale richiede step nei quali si fa coming out nei vari ambienti, e si chiede un riconoscimento della propria identità di genere, sia informale (come si viene chiamati e considerati), sia formale (come si viene tesserati o registrati almeno sul fronte accessibile, magari con una contro-documentazione legata al profilo anagrafico, accessibile solo per la segreteria).
Molte persone in un percorso non medicalizzato riescono a trovare la forza di chiedere questo riconoscimento alla famiglia, al o alla partner, agli amici, ai compagni di attivisti, alle associazioni legate ad hobbyes e passioni che frequentano, alla loro comunità spirituale, al partito politico che seguono, ma non sul posto di lavoro.
Come dice la parola stessa, in azienda si è dei “dipendenti“, e quindi si “dipende”, si è in una posizione di debolezza di contrattazione, e quindi, senza avere nessun riconoscimento legale in mano, si tende ad avere paura a richiedere rispetto, sia informale, sia formale.
E’ vero che alcuni transgender non medicalizzati hanno un certificato di uno psicologo che attesta che la persona preferisce, per la sua serenità, che gli si rivolga al maschile e col nome d’elezione (scelto), ma è anche vero che le garanzie che dà un percorso medico-legale sono ben diverse, e che a volte anche le persone stesse in percorsi medicalizzati hanno problemi ad avere riconoscimenti formali ed informali fino al momento del cambio legale del nome e del genere (che richiede degli step obbligatori, tra cui la sterilizzazione e degli interventi demolitivi molto invasivi).
E’ molto importante chiarire che le persone T non medicalizzate non è che “non vogliono la rettifica dei documenti”. Semplicemente non sono interessate ad averla alle obsolete condizioni che in Italia sono ancora necessarie per averla.
Per queste ragioni, un transgender non medicalizzato non viene “preso sul serio”, e viene spesso presa l’argomentazione di “carta canta”. La persona transgender non medicalizzata fa una sorta di auto-affermazione, di auto-determinazione, e mancano i riferimenti esterni che “attestino” ciò che afferma, come se, vista dall’esterno, fosse una malattia, e fosse necessaria una “conferma medica”.
Altro succede invece agli omosessuali, che autocertificano “de factu” la loro condizione, senza bisogno di una autoritas esterna.
Inoltre quando un omosessuale dichiara di esserlo, può essere incluso o non incluso, tuttavia il collega interlocutore (per quanto ostile sia), ha “compreso” cosa è un omosessuale, e “accetti” o meno, non chiederà di certo alla persona omosessuale, dopo quel momento, come sta la moglie (o il marito, in caso di lesbica).
Con le persone transgender è frequente, dopo il coming out, l’ignorare l’accaduto e il continuo rivolgersi alla persona col nome anagrafico e il genere grammaticale legato al sesso di nascita della persona.
Si riprende la problematica della “carta che canta”, l’imbarazzo di dover gestire questa cosa senza esserne preparati, visto che la differenza (estetica e comportamentale) di una persona T non può essere eliminata.
E’ difficile, senza una legge che ti supporti, presentarsi anche solo a un colloquio.
Mi dicono delle fonti attendibili che la categoria transgender, insieme a quella dei rumeni, è la maggiormente discriminata. la cosa mi fa amaramente sorridere perchè mi fa capire quanto ancora il semplice “genere” sia un tabù.
Ma le persone transgender vanno tollerate o incluse?
Facciamo un esempio, che riguarda non tanto i transgender ma in particolare coloro che sono anche attivisti. Come aAlcune categorie, come i testimoni di geova, ottengono permessi speciali per fare volontariato, perché non estendere questi permessi agli attivisti T?
L’inclusione della persona transgender in ufficio attraversa due tematiche: quella anagrafica e quella dell’espressione di genere.
Vi faccio un esempio spicciolo per comprendere la differenza tra queste due esigenze:
se io andassi in un ufficio in cui mi permettessero di vestire da uomo (espressione di genere), ma mi continuassero a chiamare Genoveffa (questione anagrafica), io mi sentirei accettato per metà, ma sarebbe sempre meglio di dover lavorare come “vigilessa” in gonna e tacchi al semaforo.
La tematica dell‘espressione di genere comprende sia gli abiti da lavoro, sia eventuali divise, sia le tenute di eventuali cene aziendali o incontri coi clienti, che potrebbero richiedere una certa eleganza, ma anche l’uso di spogliatoi, bagni.
Si deve considerare che ogni persona transgender ha una diversa esigenza. Ad esempio alcuni transgender di identità definita vorrebbero usare il bagno del genere d’elezione e non quello relativo al sesso di nascita. Alcune preferiscono bagni “neutri”, alcuni bagni appositi per transgender, a volte ripiegano sul bagno per disabili, e tutto questo sia per ragioni identitarie (magari la persona in questione non ha un’identità aderente nettamente a un solo genere), sia per ragioni pratiche (per non mettere in imbarazzo colleghi poco sensibilizzati).
Per quanto riguarda l’inclusione della diversità, a poco serve un lasciapassare dall’alto, se non si associa a una potente sensibilizzazione del personale alle tematiche di identità di genere e anche solo a quelle relative al binarismo di genere. Ne gioverebbero anche le donne eterosessuali e le persone omo e bisessuali cisgender (non transgender).
La tematica anagrafica comprende tutta la questione del nome presente sul badge, sui buoni pasto, sul tesserino, sulla mail.
Ovviamente le aziende più illuminate mettono su tutti i documenti informali il nome d’elezione, quelle “illuminate a risparmio energetico” 🙂 mettono il semplice cognome o un numero di matricola.
Ovviamente è semplice, se si vuole, come fanno già molte associazioni, creare una controdocumentazione col nome anagrafico, che sia visibile solo per mandare la busta paga, quindi solo all’ Ufficio Risorse Umane.
Ci sono delle professioni (come quella, appunto, del vigile urbano) dove viene richiesta continuamente una firma valida.
Su questo un datore di lavoro deve davvero ingegnarsi, e compiere quel passo in più, superando uno stato che ha una legislazione lacunosa. In poche parole, essere aziende friendly all’estero è molto più facile che esserlo in Italia.
Di certo nel mondo dei liberi professionisti (avvocati, architetti, commercialisti), una persona transgender non medicalizzata non è discriminata da colleghi e capi, ma da clienti e fornitori, ed è una discriminazione che “antecede” il rapporto di lavoro, ovvero che esclude.
Se la persona T è scaltra, può crearsi un suo giro di clienti friendly, a cui spiega la situazione e comunica che, al momento della firma, apparirà un altro nome, oppure può sfruttare il più possibile il marchio della società legata alla sua partita iva, anteponendolo il più possibile al suo.
Ad ogni modo sono tanti i liberi professionisti che, dopo il coming out, perdono i clienti, e , diversamente dalle aziende, dove puoi frenare bullismo e mobbing, nella libera professione come freni la fuga o la sottrazione di un committente nel libero mercato?
Per non parlare di come una persona transgender finisca, di questi tempi, ad inseguire cattivi pagatori, coi quali si sente in posizione delicata, perchè magari loro l’avevano “accettata”.
Infine, concludo parlando non di chi il lavoro ce lo ha (da dipendente) o se lo inventa ogni giorno (liberi professionisti), ma di chi il lavoro lo sta cercando, o perché non lo ha, o perché lo vuole cambiare.
E’ facile parlare della casistica della persona transgender che non ha avuto accesso all’istruzione e cerca un lavoretto o uno stage che dia anche una prima formazione (magari informatica, ad esempio).
Si parla meno di tutte quelle persone transgender, diplomate e laureate, magari anche con un bel lavoro a tempo indeterminato, magari anche stimate lavorativamente parlando, con scatti di anzianità, che hanno ricevuto promozioni...ma che vorrebbero cambiare lavoro perché l’azienda non è friendly in relazione alla loro identità di genere.
E’ chiaro che a questi alti e medi profili non si possono offrire stages e lavoretti precari. Un professionista T, come un professionista non t (cisgender), cerca una posizione pari alla sua, se non superiore, e vorrebbe che, al momento del colloquio, la tematica di genere sparisse, per lasciare spazio alle competenze, alla contrattazione che un professionista fa, quando presenta se stesso a un committente o ad una azienda.
In questo momento esatto, il momento del colloquio e ancor prima dell’invio del cv, nascono amletici dubbi su come una persona non rettificata e/o di aspetto ambiguo possa compilare il curriculum vitae, magari occultando il nome anagrafico, inserendo quello d’elezione e allegando una dicitura che sia chiara, riconosciuta universalmente da aziende e datori di lavoro (magari anche grazie a circolari ed eventi di sensibilizazione), che permetta alla persona T di arrivare al colloquio e di trovarsi di fronte una persona preparata e pronta a metterla a suo agio ed a farla concentrare sulle sue competenze. Le stesse riflessioni valgono sul vestiario che la persona T sceglierà per sentirsi a proprio agio durante i colloqui.
E’ difficile scegliere il compromesso migliore. Senza un’adeguata preparazione delle aziende, la persona T rischia di essere scartata all’inizio, se presenta una foto discordante rispetto al nome, o una foto ambigua non accompagnata da spiegazioni, o magari proprio per le spiegazioni che mette, o di essere scartata dopo se in modo “gnorry”, manda il cv come se fosse biologicamente del genere d’elezione, per poi dover impantanarsi dal vivo in maldestri chiarimenti.
La chiave di tutto rimane dunque la sensibilizzazione, e gli strumenti che devono essere dati agli operatori del mondo del lavoro per non perdere validissime risorse umane che chiedono solo di essere messe a proprio agio riguardo alla tematica di genere.
Se davvero si è fatto tanto, negli anni, per la parità dei generi, non facciamo si che le persone trans, semplicemente esistendo, siano la prova vivente che il genere ancora ha un suo peso nel mondo del lavoro.
l’identità di genere conta nella nostra vita perchè fa parte della nostra identità umana, non si può ignorare ma questo non inficia la battaglia per le non-discriminazioni sul lavoro
Essere transgender non medicalizzato significa non voler procedere oltre nella transizione, al momento.
Credo siano molti a fermarsi in questo stadio, poiché la trasformazione totale implica numerose operazioni estetiche, demolizioni e ricostruzioni, oltre ad un costante uso di farmaci.
In questi casi, il benessere e la salute della persona subiscono continui attentati, ma il risultato sarebbe che difficilmente il prossimo potrà accorgersi che la tal persona abbia transitato, essendo in tutto somigliante al sesso da essa desiderato.
Sorvoliamo, per completare la transizione, l’importante capitolo del comportamento da modificare, da studiare, della mimica, del modo di vedere e di pensare il mondo, che pure devono essere rieducati, costruiti.
Nonostante questi sforzi, rimangono le forme del corpo, intoccabili, che possono ancora rivelare il sesso originario assegnato dalla natura.
Rimane poi il fatto che, attraverso impercettibili segnali, chi vive con un transgender, che ha portato a termine la sua trasformazione, scoprirà, presto o tardi, il sesso di origine.
Questo non significa, tuttavia, che non verrà accettato, anzi, proprio su questo si basa la decisione dei più di accontentarsi di una transizione possibile, senza violentare il proprio fisico con medicinali e interventi chirurgici.
Nath ha dichiarato che, alla fine, i colleghi l’hanno accettato e con esso si comportano come Lui vuole e mi sembra che abbia raggiunto anche un buon clima di simpatia, accoglienza e fors’anche, chissà, di invidia.
Quanto alla selezione del personale, non è escluso che in futuro se ne tenga conto.
I governi europei sono orientati a profonde modifiche, nel lavoro e nella famiglia.
Hanno già imposto di sostituire “mamma e papà” con “genitore 1 e genitore 2”, non solo, ma tutta l’educazione dei bimbi è impostata in modo che essi possano chiedersi, senza traumi: “Ma sarò veramente maschio, femmina o devo andarmi a cercare una combinazione possibile fra tante? Magari sono femmina e ancora non so di esserlo, perché quello che appare non è detto che sia vero, come un tempo”
Non ci sono giocattoli per bimbi o bimbe ma misti e ciascuno può scegliersi il suo, senza domandarsi se è per lui o no.
Tutti gli insegnamenti – in via di riprogrammazione – saranno adattati a questa visione del mondo.
Guardando al suo futuro, il bimbo/a già può orientarsi verso ciò che sarà da adulto: sposare un uomo pure lui, come hanno fatto i suoi papà e magari può capitargli un uomo che non è veramente tale, ma un transgender, ftm, senza escludere la possibilità che lui, il bimbo, non si riconosca maschio ma femmina, mtf, per intraprendere un percorso che lo porterà a scegliere un altro mtf, in coppia omosessuale e, contemporaneamente, entrambi transessuali; in questo caso.
Volendo, tuttavia, respingere l’omosessualità, può sempre accoppiarsi con un ftm.
C’è allora la possibilità che un mtf e una ftm possano vivere – pur essendo transessuali entrambi – una realtà cisgender, perché di sesso opposto, nella scelta eterosessuale, fatta dopo quella trans.
Dal punto di vista professionale, invece, la competenza non ha sesso, a meno che il sesso giochi proprio un ruolo importante, richiesto, ma qui sarà il cliente a scegliere.
E’ altamente probabile, allora, che gli uffici “risorse umane” decidano di venire incontro, anche con la burocrazia, rispettando la privacy (almeno formalmente, perché un ftm, difficilmente potrà tenere nascosta a lungo la sua identità naturale, specialmente se non medicalizzato) ai bisogni di chi sta transitando, senza assistenza medica e chirurgica.
Si tratta di attendere quelle trasformazioni sociali che rendano tutto ciò normale, di routine.
Perché – è questa la novità – l’inconsueto diviene norma (l’istanza genderqueer non è un’emergenza sessuale, ma identità da ricercare).
Ciò che oggi è ritenuto normalità (è normale ciò che ha più alta frequenza), diventa malattia.
Infatti, chi si oppone a questi cambiamenti, è omofobo, cioè malato (la fobia è patologia).
Un mondo vario, dunque: arcobaleno, multietnico, multi religioso, multiculturale, multilingue, multirazziale, multi politico, pluri sessuale, in una sorta di nuovo Eden, in piena libertà e tolleranza reciproca.
sei troppo paranoico e che centra il modo di vedere e pensare il mondo?