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Intervista a Stefania Giannotti, autrice di Troppo Sale

Molte estati fa, forse il 2017, ho avuto l’occasione di conoscere Stefania Giannotti. Erano gli anni in cui il movimento “LGBT e non binario” iniziava a confrontarsi col movimento femminista, almeno via web, un movimento che prima di allora sapevo che esistesse in linea teorica, ma in cui non mi interessava entrare, perché la mia soggettività avrebbe avuto poco spazio, nonostante molte siano le battaglie comuni (quella della body positivity, della non centralità dello sguardo maschile etero sulle altre soggettività, quello dell’empowerment delle categorie discriminate e tante altre).
stefania giannotti troppo sale

Perché ho intervistato Stefania Giannotti

Il giorno che ci conoscemmo, comprai il libro di Stefania, ma non sono tipo da romanzi. Leggo almeno 100 saggi all’anno ma non romanzi. Poi, quest’estate, ormai sei anni dopo, la mia amica Laura Caruso ha fatto una citazione da questo libro, Troppo Sale, e così l’ho portato con me a Parigi, dove lavoro in modalità ibrida.
So che Stefania è sicuramente stata intervistata da testate importanti, visto che la pubblica una casa editrice di tutto rispetto, ma so anche che le domande che le hanno posto non sono le mie, perché non avere un “direttore che approva”, non essere un giornalista, ma un semplice blogger, ti dà la libertà di porti delle curiosità che sono solo tue.Inizialmente queste sarebbero dovute essere solo domande per l’autrice, ma poi ho deciso di condividere il tutto con le persone che leggono il blog, a cui consiglio questa lettura, per alcuni motivi.
Il primo è che il libro di Stefania si dissocia completamente dalle molte biografie che ho letto, nel mondo dell’attivismo, che sono praticamente un piagnisteo. A Stefania sono successe cose ben più pesanti, e che conosco bene perché accadute a persone a me molto care, ma non c’è vittimismo o piagnisteo: Stefania si rimbocca le maniche ed è pronta a ispirare generazioni di donne e in generale di persone.
Chi non ha letto il libro potrebbe pensare che sia un libro di ricette. Altri potrebbero pensare che sia un libro di femminismo. Il femminismo c’è, ma come compagno di viaggio, fonte di motivazione dopo un dolore altrimenti inaffrontabile, ma non da solo: ci sono anche la cucina, l’architettura, l’imprenditoria.

Non è un libro che parla di femminismo, ma è un libro scritto grazie alle chiavi interpretative fornite dal femminismo, che sanno ammettere la predisposizione all’impresa maggiore in chi è stato educato “da maschio”, ad esempio. Anche il lessico usato nel libro non è mai casuale, e si va dall’ “implacabile inquietudine” alla “meravigliosa fatica di vivere”, fino al “non farsi trovare impreparati dagli anni”.

Il lutto c’è, ma c’è ancor di più la proposta di un modo sano di affrontarlo, un traguardo spesso irraggiungibile per molti e molte. Oltre al lutto ci sono le tante cose che ad esso si legano, permeando le relazioni con chi è rimasto o rimasta, e molte di queste sono accadute perché lei è una donna e non un uomo. La forza di Stefania sta nell’averle decostruite, affrontate, decodificate.

Troppo sale è un libro che narra di una vita forse troppo “poco dolce”, ma che, come accade in cucina, può essere reinventata per servire in tavola qualcosa di buono. Il libro di Stefania, in poche parole, è un libro che, tra tante narrazioni e temi che si intrecciano, parla di speranza.

 

Intervista a Stefania Giannotti, autrice di “Troppo Sale”

la sardegna

Quanto ruota tutto attorno all’essere madre, e perché ha così tanto peso essere ex-madre o mezza madre (come ti definisci nel libro), al di là della perdita umana della morte di un figlio, e rimanendo sul piano simbolico?

È stato un passaggio cruciale. Ero stata madre di quel figlio, e lo sapevo. Ma lo stupore fu che continuavo ad esserlo, a sentirmi tale. Anche nella condizione di perdita. Madre di chi? Quanto madre? Tutto da capire negli anni che seguirono.
Si può essere madre anche senza aver generato, e si può continuare ad esserlo anche nella perdita.  Non tutto sta nel fatto biologico. Al contrario una donna non é per forza madre. Può non sentirsi tale anche davanti al frutto del proprio corpo. Io facevo il percorso inverso.

Nel libro c’è anche lui…Renzo Piano. Da Architetto non posso fare a meno di chiederti…come l’hai conosciuto?

Ero molto giovane, cercavo di apprendere come si fa l’architettura nello studio Zanuso. Piano che a sua volta era stato lì fino a poco prima, passò a salutarci. Felice, raggiante, appena vinto il concorso per il Beaubourg. Io e altri due dello studio, poi diventammo quattro, eravamo uniti dallo stesso desiderio di costruirci una casa fuori Milano. Chiedemmo a lui il progetto. E cominciò l’avventura.
Molto interessante, bella. Piano progettò per noi quattro Abitazioni a pianta libera a Cusago.

“L’obiettivo del progetto era restituire all’abitare la purezza della sua funzione primaria, lasciando ai residenti la responsabilità della definizione funzionale ed estetica dello spazio interno che doveva essere aperto ad ogni interpretazione. Irrobustendo la copertura con una trave reticolare in acciaio si ottenne un ambiente interno senza vincoli strutturali, largo come il fronte dell’edificio (15 mt).” 

Così si legge nell’archivio della Fondazione Piano. Nella mia misi al centro la cucina, luogo aperto, luogo d’incontro di chiunque entrasse o uscisse, o da qualunque stanza arrivasse. Era decisamente la “mia” casa.

Cosa hanno in comune la perdita di tuo fratello e quella di tuo figlio? Perché la responsabilità della gestione della cosa, del comunicarlo, è gravata su di te? C’entra il tuo essere una donna?

No, decisamente non c’entra. C’erano rapporti d’amore in famiglia, soprattutto con mio fratello. Lui si occupò molto dei miei genitori e questo mi consenti di allontanarmi presto dalla famiglia.
Forse capì che per me era un bisogno più forte che per lui, per trovarmi, per quel gioco quell’intreccio tra libertà e consapevolezza, necessario a una ragazza. Quando mi lasciò, allora sì, che la vita cambiò, una prima volta. E quando morì mio figlio senza di lui, sentii il doppio la mancanza di quel fratellone buono.

Una donna che (come diceva di te tuo figlio) “fa quello che le pare” è nell’essenza del femminismo? Perché, rivolta ad un uomo, o magari al padre, questa frase di tuo figlio sarebbe meno potente?

Sarebbe più scontata e quindi, sì, meno potente, penso. Me lo disse con allegria e complicità. Conosceva il mio femminismo e le mie amiche. Nelle sue parole c’era un segno di approvazione e stima per la forza e un desiderio di libertà femminile che vedeva in me, in noi.
Dirlo a un uomo potrebbe essere al contrario segno di riprovazione. Nello stereotipo gioco dei ruoli spesso gli uomini fanno “quello che gli pare”.

CiCip&CiCiap e circolo della rosa

Il CiCip&CiCiap, scenario di alcuni capitoli del libro, era un posto di separatismo femminista? Noi attivisti LGBT lo conosciamo come luogo lesbico. Quanto i due movimenti si sono intrecciati e come?

Il CiCip e CiCiap, nasce nel 1983 come luogo del femminismo separatista, Quindi frequentato solo da donne. Fu voluto da Nadia Riva, Daniela Pellegrini e all’inizio Giorgia Raiser. Oltre a essere luogo di elaborazione politica femminista era un luogo divertentissimo.
Abbiamo editato per anni una rivista Fluttuaria-segni di autonomia nell’esperienza delle donne. Anche se separatista in realtà era frequentato da donne di ogni tipo, di tutte le età, donne che amavano le donne, donne con mariti e figli, separatiste e non. Non aveva una connotazione solo Lgbt, anche se c’erano molte donne lesbiche.
Non c’erano discriminanti. La cosa che ci accomunava tutte era la passione per la libertà delle donne. Mi chiedi quando i due movimenti si sono intrecciati, nella mia esperienza che naturalmente non é esaustiva, io non ho vissuto separazione, conflitti, e successivamente intreccio.
Noi parlavamo di “omosessualità politica”, un amarsi tra donne, una relazione primaria, che non necessariamente investiva la sfera sessuale. Quello che ci accomunava era il desiderio e il lavoro politico per la consapevolezza e la libertà delle donne.

Centoventotto fotografie, quelle che hai di tuoi figlio, oggi sembrerebbero pochissime, ma era l’epoca della pellicola. Pensi che averne molte di più avrebbe cambiato le cose?

Guarda, le foto  devono essere poche. Devono essere non di più delle immagini belle o cariche di senso che riesci a ricordare, che vuoi ricordare, che cerchi nella mente, oltre diventano inutili e confondono. Vedo poveri bambini iper-fotografati, sempre in posa, ne sentii uno una volta che facendosi schermo con la mano diceva “papà lasciami vivere”.
E poi quell’accumulo sul cellulare, sul personal computer, nell’archivio online, mari tramonti bambini cani e i viaggi, i viaggi e i viaggi… fanno un mondo a parte, il mondo delle immagini, così poco godibili alla fine. Amo lo scatolone delle foto, già l’album é troppo organizzato. Poche immagine per rivivere quei momenti.

Cos’è il circolo della Rosa? esiste ancora?

Nel 1975, quindi molto presto, fu aperta in via Dogana a Milano la Libreria delle donne. Luogo aperto su strada, aperto al pubblico, vendeva libri scritti da donne, molte autrici scoperte dal lavoro delle libraie, che non aveva ricevuto talvolta la meritata attenzione.
Era anche luogo politico, si facevano riunioni e e si elaborava pensiero. Pubblicò i famosi Sottosopra, documenti, manifesti, prodotti da un lavoro collettivo e relazionale nel gruppo delle libraie. Non ricordo esattamente quando, comunque nella seconda metà degli anni  ’80 la Libreria si dotò di un luogo conviviale poco distante, il Circolo della Rosa in via Cesare Correnti a Milano. Il lavoro politico continuava in uno scambio libero relazionale.
Un circolo, “un salotto” dove ci si incontrava, si chiacchierava, si mangiava, si facevano incontri aperti, si presentavano libri. E infine nel 2000 circa Libreria e Circolo si ricongiunsero in via Calvi 29. Fu definito in seguito Il salotto più comodo del femminismo più scomodo. Era dotato anche di una cucina, attrattiva per me irresistibile dove vedevo coniugatilibri, politica e fornelli.

 


 

Ti identifichi ancora nell’implacabile inquietudine che ti attribuivano?

Assolutamente sì. È il lascito di un dolore troppo grosso che sarebbe sciocco sperare di superare, elaborare… È per sempre…
È la condizione per poter andare avanti, per non affondare nell’immobilità abitata da mancanza, perdita, assenza. Camminare camminare… cucinare cucinare… stare in una casa stufarsi e tornare a un’ altra… voler sapere… lasciare spazio ai desideri. E si vive…

Hai detto che “hanno strappato dal tuo cuore l’adolescente e hanno piantato al suo posto l’adolescenza”. Pensi che valga ancora per te?

Assolutamente sì anche qui. C’é un passo di Troppo sale che cerca di spiegare l’approdo, la scoperta dell’amore indiviso”: …”divento consapevole di un amore che non conoscevo. L’amore non ha più un nome che non sia plurale e non sa più incarnarsi. Perdo te e mi resta soltanto il mondo.
Perdo te, amore vivo compiuto reale finito e non posso averne un altro, solo l’infinito mi resta. Non amo più nessuno obbligata ad amare tutti. Hanno strappato dal mio cuore l’adolescente e hanno piantato al suo posto l’adolescenza…”

A che età hai partorito la frase “La meravigliosa fatica di vivere”?

Francamente non ricordo esattamente, ma posso ricostruirlo da molti segnali che si composero insieme. Quel giorno e i successivi la natura era bellissima lo stesso, come se non fosse accaduto nulla. Scivolava sul dolore mentre io continuavo a vivere, scivolando anche io.
Con fatica, sì certo con fatica. Ma é possibile? sì é possibile. Mi meravigliai, feci fatica e vissi. Dopo pochi mesi la Tartaruga pubblicò il mio Zucchero a velo, dopo 10 anni aprii un ristorante. Le cose avvenivano, la meravigliosa fatica di vivere: non saprei dargli altro nome.

Ad un certo punto ti definisci nonnigna dei nipoti del tuo compagno. Pensi che per parentele non direttamente legate al parto sia più facile essere “adottivi” (nonni, zii…)? E, se si, perché?

Non mi piace occupare un posto che non é mio. Molte scelte hanno un senso così radicale che preferisco lasciargli tutto il suo valore, senza uniformarlo, conformarlo al consueto, al già visto. Vidi nascere quel bambino, la nonna non c’era più, e io non ero sua nonna.
Lui verso i cinque anni non sapeva come chiamarmi, lo metteva a disagio non sapere chi io fossi davvero, non potermi nominare e quindi come chiamarmi in pubblico. Così lo invitai a sedersi a un bar per discutere e scegliere un nome. Io gli spiegai il problema, poi vagliammo insieme varie possibilità, nonnastra, nipotastro, similnonna… ma quando venne fuori nonnigna fu così felice e allegro, come se avessimo trovato la nostra favola.
Sai anche nell’omosessualità, o nell’esperienza transgender, fatta salva la questione dei sacrosanti diritti di esistenza e lasciando l’ultima parola a chi ha passato quel vissuto, mi chiedo se uniformarsi ad altre storie con “matrimonio”, invece di unioni civili, quel desiderio di essere tutti uguali, non indebolisca quella straordinaria carica di ribellione e di lotta, quindi di significati, che emerge dalle loro vite.

nonnigna

Quali sono i comandamenti della tua cucina e perché proprio questi?

La mia generazione ha dovuto fare i conti con la cucina creativa, fusion, molecolare. A me era stata trasmesso dalle donne di famiglia e nella relazione con loro il sapere culinario della tradizione regionale. Una tradizione che rischia di perdersi, una storia di civiltà, una cucina straordinaria che non sbaglia mai.
Eppure non si poteva fare a meno di renderla più attuale, aperta a nuovi bisogni e nuove culture. Così pensai e proposi nel mio ristorante la “cucina della memoria”. Stilammo i suoi comandamenti che sintetizzo così:

  • Essere padroni della tradizione del proprio territorio, della sapienza di madri e nonne; solo a quel punto innovare
  • Conoscere tutto, dimenticarsi di tutto, allora creare
  • La tradizione non come vincolo ma come passo di libertà
  • In cucina si impara da tutti anche da chi non sa cucinare.

I ragazzi del tuo ristorante diventano i tuoi ragazzi…una nuova famiglia…una famiglia queer?

Adesso tutto quello che non é normato lo si chiama queer, con un’irriverenza verso il fuori norma (e il vocabolario italiano)! E così ai vecchi stereotipi se ne aggiungono di nuovi. Mi fa ridere. Certo libera da ogni altro vincolo familiare, trasferii su di loro le mie attenzioni, le mie conoscenze.. non era un semplice rapporto di mercato, tutto doveva funzionare in quelle lunghe giornate di lavoro ed esercitavo l’autorità che mi spettava, ma i rapporti non erano quelli di capo/padrone e dipendenti.
Erano i “miei ragazzi”. Pensavo agli incassi ma anche al loro futuro. Un’amica seduta a un tavolo mi disse una sera “ma questa non é semplicemente un’impresa, é un’impresa politica”.

famiglia queer stefania giannotti

“Gli stilisti sono attenti alle calorie, sensibili, i gay sentono gli spifferi” dici nel libro. Scriveresti ancora di questi…stereotipi?

Confesso che non é più di una battuta che però si fonda su constatazioni vere e ripetute. Quando vedi tutti i giorni tanti soggetti finisci per trovare delle similitudini. Gli stilisti fanno parte del mondo della moda, che é popolato dalla bellezza, gli é entrata nell’anima. La bellezza del corpo, stereotipo o no, é importante.
La vedono, sempre. Come io architetta il design di un oggetto lo vedo sempre, lo riconosco, anche di un paio di scarpe. Perché i gay sentano gli spifferi non lo so, ma é così.

“La mediazione del piatto e il passaggio del denaro”, un concetto interessante del tuo libro. Ci spieghi meglio?

Dare cibo é, o può essere, dare piacere, un piacere del corpo. Non é solo “sfamare sfamarsi”, rispondere a un bisogno. Il cliente che viene solo per questo é il peggiore. Quel piatto che passa e va al cliente é comunque un dono che richiede e riceve un riscontro immediato.
È una scintilla che passa tra due corpi che tuttavia non si mettono in gioco, ma trovano la mediazione in quel piatto, in un lampo degli occhi, in una parola. Il fatto che alla fine passi denaro non interrompe, non guasta il gioco, proprio perché tra i corpi resta una distanza

“Con gli uomini il rischio più facile e l’impresa è più rapida” dichiari senza peli sulla lingua nel libro. Ma tu sei donna. Questo ti fa sentire “maschile” o le altre donne sono intrappolate per ragioni culturali?

Penso più semplicemente che le donne siano meno abituate a gestire i soldi e in particolare i propri.
Forse per questo più prudenti e più caute ad affrontare la parte di rischio che comunque c’é in una impresa. Ma tutto sta cambiando velocemente, con la stima, la consapevolezza di sé e più libertà femminile.

la cucina di stefania giannotti

Nel libro ci racconti che…ti fidanzi e “scappi” prima del sì: perché è accaduto?

Questa é la domanda più difficile che mi rivolgi. Non ce l’ho una risposta. Penso per un intreccio di cose. Te ne dico una. Dopo quella perdita tanto dolorosa la solitudine mi fu alleata, gli ritagliavo spazi circoscritti ma assoluti e profondi. Proprio questi mi consentivano di buttarmi poi con libertà alle mie passioni, che mi tenevano in vita.
La cucina, il femminismo, le relazioni. Ho amato molto, ma ho visto abbastanza presto che non c’era più spazio perché quell’amore si incarnasse in una persona. Insomma era una rivoluzione interiore che non poteva che prendere nuove forme. L’implacabile inquietudine.

“I tuoi giocattoli che ad un certo punto lasci e che il dolore rende più belli”: perché?

Penso che tu ti riferisca a questo passo di Troppo sale:

“ogni tanto devo soffiare di nuovo nella bolla che mi tiene a galla. Le idee scadono, i progetti si consumano, durano qualche anno […] Datemi nuovi giocattoli… datemi nuovi giocattoli… mi si rompono tra le mani.”

Poi un giorno dopo anni lascio il ristorante, l’ultimo giocattolo. Sì, il dolore li ha resi più belli, li ripercorro nella mente e li vedo come dei doni che hanno riempito questi anni. Anni che mi sono stati regalati mentre pensavo di non meritarli.

Che significa: “non farsi trovare impreparata dagli anni?”

Non sapevo quanti anni mi restavano. Non lo so neanche adesso e ne sono passati molti! Non lo sa mai nessuno! È stata una vita faticosa la mia, da combattente, tuttavia ho avuto molto, sembra un paradosso e infatti lo é.
Ma il combattimento deve finire, ogni combattimento deve finire. Il mio deve far posto a un dolore pacifico e a poca serenità. Allora sarò preparata.

troppo sale di stefania giannotti

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