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Il significato politico di “Lesbica” e cosa vuol dire definirsi lesbiche

Cosa vuol dire, cosa significa lesbica: il significato politico del termine

Lesbica significa, letteralmente, abitante dell’isola di Lesbo.
Le poetesse di quell’isola, però, non erano tutte o solo omosessuali, quindi “lesbica” inizialmente significava “donna che non dipende dall’uomo”: una specie di Amazzone.
Ecco perché alcune donne, anche non attratte, o non attratte solo da donne, rivendicano il termine “lesbica”. Oggi, però, è sempre meno così. Perché?

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“Si definirebbero qualsiasi cosa piuttosto che definirsi lesbiche!”

Spesso, nelle dichiarazioni delle attiviste lesbiche separatiste/femministe radicali/gender critical, rivolte in particolare a persone non binary o transgender di origine biologica femminile, ma non solo, ricorre il tema del “non vogliono definirsi lesbiche!” o “si definirebbero qualsiasi cosa piuttosto che definirsi lesbiche!“.
Questo è squisitamente un tema dell’attivismo lesbico, ma diventa di interesse transgender perché in qualche modo causa attacchi alle nostre identità ed insinuazioni sulla loro legittimità, quindi proviamo a parlarne seriamente.
E’ giusto che l’attivismo lesbico, separatista e non, attenzioni il fenomeno riguardante le giovani donne che non vogliono definirsi lesbiche.
Ciò, ovviamente, riguarda però principalmente donne biologicamente femmine, di identità di genere femminile ed esclusivamente attratte da donne, che però, per svariati motivi, rifiutano il termine “lesbica” per definirsi.

Perché la critica va ad ftm e non binary e non alle “lesbiche velate“?

In particolare, l’attacco delle radfem/lesbiche separatiste, viene spesso rivolto a quelle persone, col corpo femminile, e attratte da donne, che smettono di definirsi “donna lesbica” e mettono in discussione la propria identità di genere, definendosi con uno dei termini sotto l’ombrello non binary (genderqueer, genderfluid, agender, bigender) o sotto l’ombrello più ampio della T (ftm non med, transgender, uomo T).

Quando accade, la critica che viene fatta, critica assolutamente infondata e che denuncia la poca conoscenza delle problematiche sociali legate al dichiararsi T, è che “dichiarandosi non binary o ftm si avrebbe una vita più facile e meno discriminazioni“.
Sul perché questo pensiero sia falso ho scritto molto, ma la cosa che mi interessa è perché la preoccupazione del fatto che “le giovani donne non vogliono più definirsi lesbiche” venga riversata proprio su quelle persone che, col tempo, si rendono conto di far parte più della T che della L, invece che verso tutte quelle persone, di sesso femminile, e di identità di genere femminile, che, pur essendo attratte esclusivamente da donne, non usano il termine “lesbica”. 
E’ quello il “target” di persone, per numeri e per tipologia, che dovrebbe essere oggetto di interesse dell’attivismo lesbico, per capire, senza giudizio, il perché queste giovani donne scelgono altri termini per definirsi.

Cosa vuol dire, cosa significa lesbica: il significato politico del termine

“Preferiscono qualsiasi tipo di definizione a “lesbica”: fluida, poliamorosa, omoromantica, kinky, pansessuale, eteroflessibile, e così via.”

Spesso, le lesbiche separatiste attaccano le donne “non eterosessuali/non cisgender” che scelgono per se stesse definizioni sotto l’ombrello queer, definizioni all’interno dello spettro asessuale (demisessuale, omoromantica), relative alle modalità di relazione (kinky, poliamorosa), o relative agli orientamenti sessuali non binari (bisessuale, pansessuale, eteroflessibile, omoflessibile, fluida).

Un’importante premessa è quella che, anche fosse vero che parte delle donne che preferiscono queste definizioni per autodeterminarsi sono “in realtà delle semplici lesbiche“, bisogna stare attenti a non innescare fenomeni di bifobia, e di mancanza di rispetto per chi ha scelto queste definizioni perché ci rientra dentro, e sappiamo benissimo quanto sia difficile vivere apertamente alcune di queste condizioni (le donne bisessuali, ad esempio, sono talmente feticizzate che talvolta preferiscono semplificare, definendosi lesbiche in ambienti LGBT ed eterosessuali quando si devono relazionare ad un uomo).
E’ pur vero che, come esistono tante “finte lesbiche” (che in realtà dovrebbero definirsi bisessuali), esistono anche tante finte bisessuali (che in realtà, di fatto, sono attratte esclusivamente dalle donne, esattamente come i centomila “finti bisessuali” in gayromeo, che di fatto cercano solo uomini biologicamente maschi), così come è vero che ci sono persone che scelgono uno o più di questi termini (perché ognuno di noi è “tante cose”, e non solo una) ma che, viste da fuori, essendo donne attratte esclusivamente da donne, potrebbero sembrare “lesbiche non in armonia col termine lesbica“.

Al posto di agire con giudizio verso queste donne, sarebbe importante aprire con loro un dialogo, per capire perché decidono di non usare il termine lesbica.

Ho avuto molte amiche che preferivano vezzeggiativi come “lella”, perché il termine lesbica non piaceva per ragioni fonetiche. “Finisce con -ìca, mi ricorda una malattia, come strabica, stitica“, mi disse una di loro. Non credo, però, che le questioni fonetiche possano essere esaustive del problema.

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Una possibile spiegazione: desiderio di definizioni che trasmettano libertà sessuale e disinibizione

La mia esperienza di presidente, per una decina d’anni, di un’associazione LGBT, che mi ha permesso un confronto con tanti uomini omosessuali e donne lesbiche di tutte le età, e confrontarmi con loro, partendo da come si definivano, mi ha portato ad una riflessione:
gay e lesbica non erano mai semplici orientamenti sessuali, ma rappresentavano, spesso, per le persone dell’attivismo e del mondo della associazioni, anche identità politiche.
Nella rivendicazione omosessuale maschile c’era spesso anche libertà sessuale, dinisibizione, libertà di essere promiscui e poliamorosi, se lo si vuole, mentre nella rivendicazione lesbica c’era sì la libertà, ma dal giogo maschile e dal patriarcato. A questo desiderio di libertà “femminista”, spesso corrispondeva però una grande rigidità, chiusura, talvolta anche un rigore estetico, che era una naturale risposta e difesa al fatto che l’uomo etero vuole la donna, anche quella lesbica o bisessuale, disinibita, disponibile, ma esclusivamente per il suo piacere.
Questo fenomeno era forse inevitabile, ma fa sì che molte giovani donne, che, scoprendosi “non eterosessuali”, si liberano dal rigido destino di divenire madre e moglie, hanno un desiderio di uno spazio dove possono emanciparsi, potersi sentire disinibite senza giudizio, senza ortodossie e senza sessuofobie. Non vogliono, insomma, sentir parlare di “morte del letto lesbico“.
E’ forse per questo che si sentono rappresentate maggiormente da concetti come poliamore, pansessualità, kinky, fluidità, che trasmettono “potenzialità”, apertura, possibilismo.

Le attiviste lesbiche mi diranno che la cultura lesbica non è sessuofobica. Ok, parliamone!

Forse, le attiviste lesbiche, mi diranno che anche il lesbismo può essere qualcosa di promiscuo, liberatorio, pregno di carica sessuale.
Se è così, forse sarebbe il caso di fare attivismo partendo dal significato politico del significante “lesbica”.
Lo so, le associazioni lesbiche non sono aziende che devono fare personal branding, ma molte giovani donne hanno bisogno di liberarsi del perbenismo che hanno subìto quando si sono presentate al mondo come eterosessuali, con l’etichetta confezionata per loro, prevista per loro. Il loro coming out deve necessariamente portarle verso qualcosa di aperto, di liberatorio, e non verso un rabbioso e livoroso attivismo che crea separazioni e steccati.

cosa vuol dire lesbica

“Ma perché tu, persona T, ti preoccupi di questo problema?”

In realtà, però, il tema della “rivalutazione della definizione di lesbica” non può e non deve essere il mio tema, anche se, lavorare su questo problema, eviterebbe di vivere un coming out ftm (o non binary) come la “perdita di una guerriera“.
Il problema di “chi non vuole definirsi lesbica” non riguarda chi fa coming out molto più impopolari e soggetti a derisione ed esclusione sociale (come accade agli ftm, soprattutto se non medicalizzati), ma tutte quelle donne che di fatto sono lesbiche (persone di sesso e genere femminile, attratte da donne), ma preferiscono definirsi etero, eteroflessibili, bisessuali o altro, e sono molte, molte di più. Forse sono loro quelle che andrebbero raggiunte ed istruite sul valore politico della parola lesbica, non noi ftm.

Questa riflessione, però, riguarda le donne, e io posso solo esprimere un mio punto di vista sul tema, che deriva da tutte le opinioni che ho sentito durante la presidenza, o dalle lettrici del blog, e posso dire di condividere anche io il pensiero di queste ragazze e donne che mi hanno presentato questa visione.
Perché ritengo che sia utile mettere in campo questa mia riflessione? Semplicemente perché il problema del “non volersi definire lesbica” di molte ragazze, di fatto attratte solo da donne, alla fine causa questo attacco a noi ftm e non binary, scambiati anche noi per “ragazze che non hanno il coraggio di definirsi lesbica“.
Se non ci fosse questo problema, probabilmente non avrei neanche scritto sul tema, non sarei stato spinto a riflettere sul problema per proporre alle attiviste nuovi spunti, e liberare noi T dal “giogo” del tentativo di conversione al lesbismo.

 

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