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Per tutto l’anno preferisco dividermi tra le mie attività extraLGBT (lavoro, interessi vari), e limitare l’area LGBT all’onerosa e impegnativa esperienza della presidenza e “onnipresenza” presso il Circolo Culturale Harvey Milk Milano (www.milkmilano.com).
Si tratta di un’associazione culturale e di servizi gratuiti a persone LGBT e non, molto mirata verso obiettivi “collaterali” (antibinarismo, laicità) e la cui frequentazione etero e LGBT propone un perfetto esempio di “mixitè“.

Il pride è il momento in cui “mi ricordo” delle altre associazioni e singoli e mi accorgo di quanto alla fine vi sia la compresenza di punti di vista lontanissimi dal mio, oltre al fatto che a volte mi sembra che certi “mondi” propongano visioni molto “catechizzate” verso delle “teorie” e che si dia poco spazio ai singoli vissuti e all’esperienziale.

Recentemente una lesbica, quando le ho chiesto di parlarmi della sua identità di genere (ebbene si: anche i cisgender hanno un’identità di genere!) mi ha detto di essere “post-materialista” e di seguire tale teoria. Ho dovuto ripetere la domanda sei volte per farle capire che non le avevo chiesto un’appartenenza politica, religiosa o filosofica, ma di parlarmi della sua identità di genere (oltre al caro vecchio limite che le persone cisgender hanno, per motivi esperienziali, di distinguere identità e ruolo, non “sentendo” appunto sulla pelle un’identità di genere dissonante col proprio corpo).

Sento ancora delle lamentele sulla “frammentazione” del movimento, e la vecchia e un po’ fascista proposta di riunirci sotto un unico stendardo, proposta che arriva sempre dalle “maggioranze” (gay o tuttalpiù lesbiche), che non capiscono che l’unica speranza per le persone B, T o Q risiede in queste “oasi” minoritarie di attivismo plurale.

A volte a questo discorso si legano ragionamenti discordanti.  La rabbia che i T e i B non ci siano stati quando gay e lesbiche si sono fatti un mazzo così a fondare dei gruppi (“e i b e i t dov’erano????”), ma anche la rabbia di vedere che ora se li stanno formando “togliendo spazi” alla G e alla L, come se non ce ne fossero già abbastanza di associazioni binarie.

Il vero classicone è quando un ftm si presenta a una lesbica e lei sente il “forte bisogno di ribadire che lei è donna e fiera di esserlo“, o quando un bisessuale si presenta un gay e lui sente il “forte desiderio di ribadire che giammai proverebbe la vagina“.
Cosa c’è di diverso da quando in un coming out gay di fronte agli etero, questi cominciano a camminare rasenti ai muri dicendo che non vogliono prendere il “pene nel sedere”?

E’ come se il fatto che le nuove associazioni stiano parlando di un dato di fatto, ovvero che la società (o sarebbe meglio dire l’umanità) presentano infinite variabili di orientamenti sessuali e identità di genere , costringesse chi si identifica totalmente in “uomo“, “donna“, “gay” o “lesbica” a diventare “fluidi“.

Si tratta comunque di attivisti vecchio stampo che hanno dovuto lottare per definirsi gay, lesbiche, femministe, quando un mondo perbenista preferiva che fossero “un po’ meno diversi“. Quando a una lesbica veniva detto “uomo mancato”, o a un gay veniva detto “prova la patata che in fondo ti piace”. Ecco il trauma che fa si che poi B e T siano sempre gli ultimi del carro.

Il movimento transgender, poi, porta avanti una battaglia di “sdrammatizzazione” del sesso biologico e del binarismo ad esso legato, sia riguardante gli orientamenti sessuali, sia le identità di genere, sia i ruoli. Nel libro L’Apartheid del sesso” di Martine Rothblatt, l’autrice paragona il dato “razza“, presente nelle vecchie carte di identità in SudAfrica, col sesso biologico onnipresente nei nostri codici fiscali, perché come dice la parola stessa, fisco, sembra proprio importante sapere se uno abbia la vagina o il pene! Superflui entrambi. Ovviamente questa sdrammatizzazione che migliorerebbe la vita di transgender, persone con un’espressione di genere non binaria, e gli etero tutti, dà fastidio a chi ha usato la nettezza della propria identità di gay, lesbica o donna, per fare attivismo, considerando ogni discorso sulla fluidità come un tentativo “fascista” di cancellare le identità totalmente omosessuali e depotenziarle.

Soprattutto il mondo lesbico sembra molto legato all’analisi (un po’ “zoologica”) di quello che chiama il mondo delle “donne ftm” (e già l’uso della parola “donna ftm” e non uomo ftm mi fa capire che considerino l’ftm un altro tipo di lesbica o tuttalpiù di donna, visto che alla fine hanno dovuto accettare che esistono ftm gay). Anche ragionamenti femministi del tipo “una donna può essere quel che vuole, può essere, se vuole, anche un uomo”, associati agli ftm mi fanno venire i brividi. E anche discorsi del tipo “una donna ha già tutto, perché cambiare” o ancora “la transizione è una cosa superficiale, perché cambia “solo” il corpo” o ancora “se sei pre T sei ancora donna e quindi mi rivolto a te usando il genere femminile” o “transizioni perché non hai il coraggio di vivere come donna nella società maschilista” mi fanno capire che della “disforia” e del disagio di una persona t queste associazioni, che essendo monotematiche sull’argomento “ruoli” si sono confrontate poco con l’esterno, hanno capito poco e niente. E che forse non dobbiamo usare noi stessi come cavie per “educare” persone che, essendo molto ideologizzate, non si vogliono mettere in discussione.

L’attenzione del mondo lesbico alle sole persone LGBT “nate femmine” mi ricorda l’attenzione che i riparatori hanno solo per le persone LGTB nate maschio (uomo gay, donna mtf). Nel primo caso l’attenzione è spinta dal femminismo, nel secondo, dal maschilismo. Ad ogni modo è un’attenzione che mette in primo piano i genitali e non le identità, commettendo un grande torto verso l’universo transgender.

Nel periodo del Pride ci sono state molte conferenze sulla teoria queer. In una di queste ho avuto modo di sapere che alcuni esponenti della teoria queer considerano “gay”, “lesbica” e “butch” dei generi.  Posso comprendere che queste identità siano estremamente diverse da quelle che noi conosciamo oggi come “uomo etero” o “donna etero”, ma se un uomo gay smette di definirsi uomo per definirsi “gay”, compie, a mio parere, un’azione di de-legittimazione, come se permettesse che all’etichetta “uomo” coincidesse un solo tipo di uomo, quello etero, e lo stesso per quanto riguarda la donna. E’ come se si tornasse (con presupposti molto diversi) a una visione ottocentesca di omosessuale come “intermediate sex”, una visione che, onestamente, mi fa rabbrividire.

Inoltre, per tornare alla “simpatica” suddivisione del sud italia (o del maghreb), quale sarebbe il “genere” dell’attivo con aspetto “insospettabile”? Sarebbe “uomo” o “gay“?
Infine, mi sono confrontato con una etero che, capitata per caso a un nostro evento, poiché nelle vicinanze, ha espresso il fatto che “noi LGBT parliamo sempre di sesso”. E questo mi ha fatto capire di quanto il mondo etero, che “crede di non avere un orientamento sessuale e un’identità di genere“, pensa che “noi si parli” di sesso, cosa che , se è falsa abbastanza per il mondo LGBT, lo è ancora di più per quello T.

Infine ho casualmente scoperto che un mio collega omosessuale è andato al Pride e ne ha parlato in bacheca. I miei colleghi, anche omosessuali, commettono un grande errore. Più o meno tutti, nel mio ufficio ma in tanti uffici nel mondo, “concedono” alle donne lesbiche di essere mascoline, ma se lo è una donna etero sposata, a quel punto viene tacciata di trasandatezza e un po’ bullizzata. Persino il gay se ne esce con “tesssoooooroooo, curati!”.

Questo perché il vero tabù oggi riguarda l’espressione di genere. Un bambino gay, se “maschile“, non viene bullizzato, ma un effeminato (anche non gay) si.
Per questo si parla tanto bene di un Pride “in giacca e cravatta” dove le persone omosessuali rappresentano la conformità di espressione di genere che tanto piace ai “normali”. Per questo, ad un colloquio, un punk o un glamster sarebbero molto più bullizzati di una trans operata e “carina” o di un gay in giacca e cravatta.

E per finire ho dovuto anche sorbirmi da alcune persone etero il fatto che “noi LGBT non dobbiamo discriminare la Chiesa, se non vogliamo essere discriminati noi“.
Ora, mi chiedo, perché il “discriminato” ha un maggiore dovere di non discriminare gli altri? devono essere sempre “sensibili” i diversi?
Ma a parte questo, sparare contro una chiesa che boicotta l’eterologa e i diritti LGBT, non è “discriminare“, ma condurre una battaglia di laicità importante.

Per ora è tutto. Alla prossima 🙂