Nelle ultime settimane ho provato uno stato di insofferenza osservando persone trans lamentarsi del fatto che il cosiddetto “movimento LGBT” pensa solo ai “diritti negati” (al matrimonio di persone omosessuali, problema non prioritario per il mondo dell’identità di genere) e all’ “omofobia” (e, anche qua, non costerebbe niente mettere omoTransfobia, ma non lo si fa).
Ho visto lamentele sul fatto che nel movimento LGBT ci sono associazioni che LGBT non sono, e che non dovrebbero spacciarsi per tali, ma è anche vero che queste associazioni, pur facendo parte del movimento LGBT, sono associazioni Gay, Lesbiche o al limite GayLesbiche, e come tali anche si definiscono.
Queste associazioni dovrebbero far parte poi di un movimento, insieme ad associazioni che non escludono la B, la T, e se ci va bene anche la Q. Ma è in questo che c’è il “vuoto associativo”. Quindi le persone trans possono anche arrabbiarsi che le associazioni più visibili e conosciute siano solo rivolte al mondo omosessuale (ignorando, snobbando e a volte maltollerando il mondo bisessuale, transessuale, transgender, queer), ma è anche vero che ciò che va al di fuori di loro e di altre piccole associazioni sulla loro falsariga è inesistente, conflittuale, frammentato.
La colpa è sicuramente della mancanza di dialogo: c’è un’accusa molto forte verso queste realtà, che ha duplice natura.
Da un lato il binarismo: accoglienza, progetti nelle scuole, telefoni amici, escludono completamente tutte le condizioni interstiziali della natura umana, che esistono e hanno loro dignità.
Ho sentito spesso storie di persone che, nella loro adolescenza, chiamando un telefono amico, avevano avuto indirizzo verso la condizione di omosessuale e di transessuale e tutto il resto veniva indicato come una fase destinata a concludersi.
Dall’altro lato, la precedenza ai problemi di orientamento sessuale e non a quelli riguardanti l’identità di genere, che sicuramente coinvolgono forse meno persone, ma sicuramente vi sono problemi più profondi, visto che (anche se sarebbe sbagliato), l’orientamento sessuale lo puoi celare, l’identità di genere no (se non al prezzo della negazione totale dell’identità della persona)
Inoltre so per certo che in alcune associazioni di stampo lesbofemminista vi è una vera castrazione verso pulsioni identitarie da parte di alcune persone nate femmina e “female oriented” (attratte da donne) che spesso si identificano col ruolo maschile e a volte, magari per gioco, con l’identità e si fa pressione sul fatto che loro sono “donne che amano le donne” e non devono “sentirsi uomo per amare una donna”…cosa che sicuramente va bene per chi è una lesbica che soffre di lesbofobia interiorizzata ed eteronormatività interiorizzata…ma non per tutti quelli che dopo si scoprono ftm e per anni sono stati castrati.
Ma andiamo alle istanze:
In effetti le istanze del mondo transessuale riguardano il diritto al lavoro, il diritto al nome d’elezione, il diritto di uscire di casa senza subire violenze fisiche o psicologiche.
Secondariamente, ma molto secondariamente, le questioni che riguardano “l’amare” e non “l’essere” dal punto di vista legale.
Riguardano i trans eterosessuali che legalmente sono ancora “omosessuali” perché hanno i documenti coerenti col sesso di nascita….e i trans omosessuali con nuovi documenti, impossibilitati a sposare e che hanno problemi simili agli omosessuali biologici.
Le istanze bisessuali sono coincidenti con quelle degli omosessuali ma si unisce la bifobia da parte del mondo gaylesbico e la lotta ai pregiudizi e agli stereotipi riguardanti la bisessualità.
Infine, transgender e queer che lottano per scorporare il genere d’elezione da interventi ormonali o medici sul corpo.
Si fa a questo punto una questione “prioritaria”: si, anche i vostri sono problemi, ma secondari.
Ma la secondarietà da cosa dipende?
Dal fatto che ci sono molti più attivisti gay? o persone gay?
Che sono cose più “semplici” da capire da parte del mondo etero, perché se ne parla di più e da più tempo?
Nath
La secondarietà credo che derivi semplicemente dal fatto che le persone LG sono più numerose e che il movimento LG abbia sostanzialmente scelto di agire, da decenni, come gruppo d’interesse e non come attore politico-sociale interessato ad una trasformazione socio-culturale più ampia. Per questo tutto quello che non è precepito come direttamente legato agli interessi/diritti delle persone LG “tipiche” e più forti diventa secondario (v. transgender) o completamente negato.
In tutto questo, credo che giochi anche il fatto che il modello di orientamento sessuale si sia sviluppato secondo gli schemi rigidi della classificazione medica di fine Ottocento. Ecco allora il binarismo omosessuale/eterosessuale (all’interno del quale la categoria della bisessualità è, per forza strutturale di cose, una categoria ambigua), ecco allora la separazione netta tra orientamento sessuale e identità di genere (e la conseguenze percezione di estraneità della questione dell’identità di genere per chi si definisce LG).
Francamente sono convinta che tutta questa incomprensione sia riconducibile in realtà a una condizione superiore, in cui si trovano tutti gli appartenenti a una minoranza – specie di natura sessuale (di orientamento o identità che sia). Non mi stancherò mai di ricordare che, dopo il triste ma sempre sorridente primato del Giappone, l’Italia è il quarto paese più maschilista al mondo. Il quarto. Questo comporta che a dominare le scelte sociali siano valori tipicamente associati all’universo valoriale maschile, notoriamente assertivo e individualista, contro una prospettiva femminile più incline al riconoscimento dei bisogni altrui. Ed è qui il “problema” di tutti i movimenti italiani: non siamo capaci di alzare la voce per far pesare nella nostra società fallocentrica (e potentemente gerarchizzata sul modello del manager 40enne con la classica doppia vita a seconda delle rivoluzioni della luna nel cielo) il fatto che ogni individuo appartenente a una minoranza sessuale ha un suo peso, da non confondere con un valore astratto e “umanitario”, non siamo simpatiche specie da “proteggere” e mettere possibilmente dentro un acquario per il diletto e il sollazzo dei “normali” – sempre rigorosamente uomini. Il valore di cui parlo sono le competenze concrete che ognuno di noi ha e che potrebbero potenzialmente contribuire allo sviluppo sociale di tutto il paese. Questo è il messaggio che non passa mai in Italia. Si chiacchiera tanto di diritti, senza studiare un modo efficace per ottenerli.
Basta guardare per un attimo al tanto criticato modello statunitense. Gli americani hanno tanti difetti (non sia mai che qualcuno glielo dica, però), ma hanno il pregio di vivere in una società altrettanto votata alla cultura individualista del lavoro e del successo, che però è intelligente e progressista e non ottusa come quella italiana. Il meccanismo è molto semplice: una volta capito che è più facile imbattersi in persone LGBT con un elevato grado di cultura e competenze – quindi preziose e indispensabili all’economia del paese – garantire alla comunità i suoi diritti è stato “second nature” per la società americana. Ed è talmente banale da essere quasi sconcertante.
Perché in Italia chi ambisce in alto, ancora oggi, preferisce rimanere nel riserbo più totale rispetto alla propria condizione (omo/bi/trans*/vattelapesca che sia)? Perché non siamo in grado di spingere tutte le persone della comunità LGBT ad ambire in alto, a qualificarsi il più possibile in modo da far capire alla società che siamo un valore irrinunciabile per loro? Che se vogliono crescere e prosperare è opportuno che ci riconoscano pari dignità? Cosa spinge una persona LGBT ad “accontentarsi” più facilmente di una condizione di subalternità sociale rispetto al solito – e tanto odiato – manager 40enne dalla doppia vita notturna, che invece ha preso diversi titoli di studio e possibilmente fatto 345 sgambetti per arrivare dov’è? Quali sono i moventi dell’agire di ciascuno di noi, individuo ma anche membro di una comunità, volente o nolente, e come pensa ognuno di noi di contribuire all’emancipazione della nostra condizione?
Queste sono le domande che contano davvero, a mio parere.
Sembra un discorso cinico e materialista il mio, e sono certa che nell’irrazionalità umanisticheggiante di questo paese verrebbe subito tacciato di grettezza, di “perdere di vista il valore umano della persona”, di “ridurre la persona solo a quello che può produrre”, di “svilire la bellezza della natura umana e monetizzarla in un discorso utilitarsitico”. Sono certa che questo è il messaggio che passerebbe. Salvo poi accorgersi che quegli stessi paladini del valore umano fine a se stesso sono i primi a guardare al portafogli, e possibilmente allungare l’occhio anche a quello che sta nella tasca di chi è davanti.
Signori, svegliamoci un po’, per favore. Nessuno da niente per “la gloria”. Solo una volta conquistato il riconoscimento sociale che ci spetta saremo in grado di fare tutta la sensibilizzazione umana del caso, diffondere quel valore che tanto opprime i nostri cuori perché ci è negato di esprimere il nostro amore, il nostro splendido modo di essere e amare.