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Una lettura non trans e non lesbica di “Tomboy”

Zoe Heran e Tomboy

Tomboy, libere di essere maschiacci Anche se è dispregiativo

di Stefania Ulivi

Zoe Heran e Tomboy

Le parole, si sa, non sono mai neutre. E dunque che si usi un dispregiativo– maschiaccio – per indicare quelle ragazzine che nell’età di passaggio tra l’essere bambini e il ritrovarsi adulti si divertono con i giochi considerati da ragazzo, non sanno che farsene di scarpette rosa, e sono pronte a fare un falò di barbie/winx/pollypocket già la dice lunga. L’inglese, come spesso capita, risulta più neutro: tomboy. Ma anche in paesi più illuminati del nostro sul fronte dell’accettazione dell’altrui identità, specie se sessuale, ma non solo, per le tomboy i tempi non sono facili. Se ne è accorta Céline Sciamma quando si è trattato di mettere insieme il cast per il suo film che si intitola proprio Tomboy, un caso ai botteghini francesi, molto premiato ai festival. Scovare una maschiaccia non è stato facile neanche in Francia, finché non ha trovato Zoé Héran. A quel punto ha scritturato anche i suoi amici: bambini veri, una rarità al cinema, tutti molto a loro agio davanti alla cinepresa. Costato poco e realizzato anche per questioni di budget a tempo di record,Tomboy segue da vicinissimo i turbamenti della giovane Laure (la piccola Zoé). Capelli a zazzera, passione autentica per il calcio, gran voglia di essere accettata a scatola chiusa, senza dover dare troppe spiegazioni. Il film è un gioiello. Veramente. Esce da noi il 7, cercate di non farvelo scappare (è sempre un problema trovare tempo per il cinema, lo sappiamo, ma questo merita visioni collettive, con figli, amichetti, amiche, mariti, fidanzati, genitori, vicini di casa). E’ un’ode alla libertà di essere quel che si vuole. Dice la regista – che si è andata a cercare da sola i soldi che le servivano perché, spiega, “è l’unico modo per fare cinema veramente libero e indipendente” –  che ogni volta che lo ha presentato al pubblico, è stata colpita da quante persone, donne e uomini, avessero delle storie da raccontare. E il bisogno di farlo. Céline Sciamma, lo racconta  nell’intervista video qui sopra, è stata un maschiaccio, in anni in cui forse, anche se è un paradosso dirlo, era più facile esserlo. Anche a me è capitato: una delle delusioni più cocenti l’ho vissuta in quinta elementare. Avevo vinto, piuttosto miracolosamente va detto, un concorso di disegno cittadino. La premiazione era in Comune, accompagnata dalla maestra. Il premio un fantastico pallone di cuoio ( una rarità nei tempi antedecathlon). Fantastico per i maschi. Per le femmine il trofeo era una orrida bambola con un insulso vestitino a balze giallo e degli stivaletti in similpelle e uno sguardo così ebete che ancora lo ricordo. L’ho odiata come pochi altri oggetti in vita mia. Non era una bambola, era il simulacro di quello che si dava per scontato dovesse piacermi. Alle medie l’oggetto del disprezzo sono stati i cuscini all’uncinetto con le balze. Chi è stato ragazzino negli anni ’70 non può dimenticare. Gli altri, per fortuna, non li conoscono: sono stati spazzati via. Meritato oblio. Venivano realizzati, durante le ore di applicazioni tecniche, in molesti accostamenti di colore (giallo sole, marrone nutella, verde pisello) che li rendevano ancora più mostruosi (e infatti finivamo regolarmente sui sedili posteriosi delle automobili: nemmeno i più liberali li accettavano in salotto). Realizzati dalle femmine, s’intende: i maschi si esercitavano con circuiti elettrici, modellini realizzati a traforo. Come accadde per il pallone, anche in quel caso chiesi di poter fare anche io come i maschi. No, non si poteva. A ognuno il suo. Oggi che tante cose son più facili – e le applicazioni tecniche separate archiviate – sfuggire i cliché, in particolare quelli di genere, mi sembra invece più arduo. Ogni volta che vedo una ragazzina un po’ ragazzaccio le auguro che nessuno interferisca con giudizi e pressioni. Così come per i ragazzi che preferiscono il pattinaggio al calcio, i gorgheggi alle gare di rutti. In questo caso il temine è ancora più connotato e spregiativo:femminuccia. Il bello di avere dieci/dodici/quattordici anni è che è un’età in cui tutto sembra possibile. Da madre di figlio maschio mi lancio in discussioni appassionate con lui e i suoi amici sul tema “cose ma maschio”, “cose da femmina”, categorie granitiche di giudizio e analisi  della propria ed altrui natura. Finisco spesso in minoranza, ostinandomi a metterle in discussione, ma, come si dice, il dibattito è aperto. I modelli di genere sono fortissimi, e chi prova a uscire dal gruppo il più delle vlte non è compreso. Se avete figli o nipoti o amici che vanno alle medie, fate una prova: contate quante ragazzine hanno i capelli corti: se ne trovate più di tre in una sola classe vi pago il biglietto del cinema… Le pressioni sulle ragazzine verso un modello unico di femminilità, che arriva dritta dai calendari nostalgici dei camionisti, sono enormi. Non è una scope rta, in un paese dove il machismo è forse l’unico punto di contatto rimasto tra governati e governanti. Ma a voi sembra possibile che maschiaccio e femminuccia siano un marchio e non, semplicemente, modi di essere? Ps. Non c’entra certo, ma il caso vuole che il correttore automatico del computer non riconosca la parola celine e si ostini a correggere il nome della Sciamma (che avendo origini italiane non se ne stupirà) in veline. Le parole non sono neutre, non credete? fonte: qui