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Chiara Ferragni, l’empowerment e il vittimismo della militanza trans

Non guardo Sanremo perché è uno degli insulti che la tv pubblica, da noi tutti pagata, fa alla mia generazione, e non tengo tanto alla generazione dei miei genitori da contribuire alla mastodontica spesa per questa dispendiosissima operazione nostalgia.

Purtroppo, però, se fai, o hai fatto, parte, del mondo dell’attivismo LGBT o femminista, alcune voci ti arriveranno, e quindi “devi” esprimerti. Su questo, lo faccio con piacere, perché tocca un tasto dolente dell’attivismo che sento molto, e ho a cuore il parlarne.

Chiara Ferragni e il “partire da sé”: il maschilismo che subiscono le imprenditrici

Partiamo dalla storia: Sanremo, da decenni, non è più solo uno spettacolo musicale, ma invita personaggi di successo, non solo del mondo della musica, che hanno una finestra per dire la loro. In questo atto, rappresentano solo se stessi e se stesse.
Nel caso di Chiara Ferragni, l’influencer ha scelto di parlare, con un escamotage narrativo, alla se stessa bambina, per raccontare quanto è stato faticoso diventare di successo essendo donna, con attacchi continui di persone che non gradiscono che il potere vada ad una soggettività discriminata, come, incredibilmente, ancora oggi sembra ancora essere quella della “non minoranza” femminile.

Chiedere scusa del proprio successo a chi non ci ha provato

Sono seguiti attacchi profondi da un mondo militante e anticapitalista dove spesso albergano mansplaining e maschile tossico. Il punto è che, se una donna parla di un suo successo, pur mettendo l’accento sulla fatica per conseguirlo, a causa della misoginia, deve prima di tutto scusarsi di quel successo. Un uomo non deve farlo: quando parla non c’è un’esegesi di ogni sua parola, ma i contenuti delle donne, o delle altre minoranze, vengono analizzati ai raggi X, si fa l’analisi del testo come al liceo, e lei deve rispondere di ogni sua parola.

Ogni persona parla di ciò che ha vissuto e provato

Ferragni non è una femminista, non parlava a nome di un movimento, ha raccontato la sua esperienza, come facciamo tutti noi attivisti e blogger appartenenti a soggettività discriminate: possiamo conoscere alcuni ambienti squallidi e non conoscerne altri, e parleremo di quelli che conosciamo. Ho fondato enbypost.it proprio perché so che la mia voce è parziale, e se ognuno porta la sua esperienza siamo più forti e inclusiv*.

Personalmente, non conosco né il sex working né la fabbrica, ma conosco il mondo dei call center, e il maschile (ma anche femminile) tossico che si vive in un ambiente di lavoro senza cultura in cui conta solo l’aspetto fisico e le battute sessuali e sessiste sono all’ordine del giorno. Posso dire, sarà classista, che cambiare ambiente, lavorare in mezzo a persone colte e inclusive, ha cambiato la mia vita, e quindi so bene che chi è meno emancipato soffre di più il suo quotidiano: pensiamo alle persone transgender che vivono, anche in tarda età, con i genitori, e sono misgenderate, e chiamate col deadname, ogni giorno.

Minoranze di successo: attacchi da destra e da sinistra

Tuttavia, anche se non sono Ferragni, so che succede a donne e persone appartenenti ad altre soggettività quando vogliono emergere: paradossalmente, finché fai un lavoro di merda va tutto bene, e nessuno si scandalizza se stai lavorando in contesti che non rispecchiano i tuoi titoli. Sei trans, sei già fortunat* ad avere un lavoro. Se però vuoi emergere, se riesci ad emergere, allora qualcosa non va, e ricevi un duplice attacco: le minoranze iniziano a pretendere che tu chieda scusa, che ogni frase in cui vuoi parlare dei tuoi successi, anche per ispirare altri, venga anticipata dalla premessa in cui dici di avere un non ben chiaro “privilegio” e non è merito tuo, mentre i maschi etero rampanti che presidiano quei luoghi di potere cercano di spingerti giù.
Non sono multimilionario ma una semplice partita iva forfettaria, tuttavia posso dire di conoscere la “strettoia” in cui si trova Ferragni, criticata a destra e a sinistra. Certo i suoi milioni, si spera, le daranno conforto, ma capita anche a chi è “lei” molto più in piccolo.

Autocoscienza: empowerment o vittimismo?

L’attivismo ha spazi che vengono chiamati di autocoscienza e di aiutoaiuto, che spesso, nonostante gli sforzi di chi li dirige, hanno movimenti che portano verso il vittimismo e non verso l’empowerment. Al posto di valorizzare chi ce l’ha fatta, bisogna mascherare e nascondere il successo di chi è diverso, e ha elaborato strategie creative e replicabili per farcela, perché quel successo tocca nervi scoperti di chi, magari in condizioni simili, non ce l’ha fatta o non ci ha neanche provato, abbandonandosi ad un vittimismo che purtroppo è promosso sia dall’attivismo, sia da tutto l’impianto del transificio, sia da psicoterapie che non spingono al cambiamento o alla crescita, col retromessaggio che “Sei trans, e quindi sei già fortunato ad avercelo, un lavoro”.

Cosa abbiamo da imparare dal caso Ferragni e dal successivo dibattito

La Ferragni non è un’attivista, e non è neanche trans, ma tutti noi possiamo imparare una cosa da questa vicenda: l’attivismo ha un fottutissimo bisogno di empowerment e di lavarsi via il vittimismo. Sicuramente dobbiamo fare autocoscienza e contestualizzare i nostri insuccessi, campendo l’impatto dell’aspetto fisico, della misoginia, dell’omotransfobia, ma l’autocoscienza deve andare oltre, o diventa solo una culla in cui masturbarsi sui propri insuccessi. Finché l’attivismo non sarà questa cosa, preferisco starmene dove sto: al di fuori.
Se una comfort zone è un posto dove devo chiedere scusa e battermi il petto per la strada che ho faticosamente fatto, preferisco il mondo vero.

Leggi anche: Corpi e professioni: il lavoro freelance/remoto per le persone gender non conforming

 

2 commenti su “Chiara Ferragni, l’empowerment e il vittimismo della militanza trans”

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