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Il caporalato delle parole

Aspettano tutte lì, sedute sul marciapiedi, con i loro jeans strappati. Sono quasi tutte donne, anche se c’è qualche uomo, ma è molto giovane. Le donne, invece, sono di tutte le età. Aspettano che arrivi il furgone.
Ogni giorno, le va a prendere e le porta nei campi delle parole. Le raccoglieranno, a mezzo centesimo a parola. Ci metteranno un intero giorno, forse alcuni giorni, a raccoglierne settecento, ottocento, mille, a volte persino cinquemila, diecimila, finché non sentiranno dolore ai polpastrelli…e non è detto che vadano bene, perché alcune saranno considerate “stop words”, circa la metà, e saranno escluse dal salario, come fossero pomodori marci, raccolti inutilmente.

Il caporalato delle parole

Chi ha più fortuna “raccoglierà” a un centesimo, massimo due a parola, ma la consegna sarà mandata indietro più volte, verranno chieste continue correzioni, verrà chiesto di aggiungere titoli e sottotitoli “efficaci” e persuasivi, partoriti col Metodo Merenda o con quello Colazione, metadescrizioni, titoli alt, immagini libere da diritti, e poi forse arriverà un bonifico. O magari arriverà persino una multa, se si scoprirà che la foto non è libera da diritti, ma di un’agenzia rumena.

Per molte di queste giovani persone, questo lavoro sarà una distrazione da una vita da casalinga, o un modo di fare qualcosa di “coerente” a una laurea a indirizzo umanistico. Alcune si sentiranno fortunate, di questi ampi guadagni, magari in nero, magari con una ritenuta d’acconto, per arrotondare rispetto a qualche lavoro ripetitivo e triste, magari un call center, o un lavoro impiegatizio. Qualcuna consolerà sé stessa, dicendo che sta imparando tanto, e che addirittura dovrebbe essere lei a pagare, per “l’onore” di fare un bel portfolio, che a breve darà i suoi frutti.

Altre faranno le ghostwriter, scrivendo articoli efficaci, pieni di competenza, affinché un vecchio boss panzuto ci metta sopra il suo nome, e penserà che quei due centesimi a parola forse uno, forse mezzo, siano meglio rispetto a tutte quelle volte in cui un privilegiato, laureato con un voto inferiore, o forse neanche laureato, si è preso il merito per lei, magari in uno studio, o in un ufficio.

Altre, per qualche centesimo in più a parola, scriveranno contenuti hard, che saranno affiancati alla foto di una spogliarellista o telefonista a luci rosse, che non sa la nostra lingua. Nella sua bocca, una corpulenta laureata in lettere, economicamente dipendente dalla famiglia d’origine, nonostante abbia oltre trent’anni, e che vive in Molise, nella sua casetta d’infanzia, in un lettino singolo, scriverà contenuti sinuosi, conturbanti, finemente erotici, che un pomposo gestore di portalacci, vanesio e arrogante, chiederà di semplificare, per eccitare meglio i morti di figa del web.

Altre sogneranno l’abilitazione a pubblicista, ma nel mondo del web non è facile. Ci sono tanti siti e portali che mettono annunci “civetta” dicendo che si tratta di una proposta di “lavoro”, ma solo dopo verrà fuori che gli articoli saranno pagati solo se raggiungono quantità spropositate di clic, che comporteranno ore di lavoro e rischi di blocco per spam da facebook e altri social, per raggiungere pagamenti, una trentina di euro per una decina, o ventina, di pubblicazioni, per cui hanno dovuto seguire brief rigorosi e oppressivi: una cifra neanche lontanamente vicina a ciò che chiede l’Albo dei Giornalisti Pubblicisti per far abilitare una persona (in Lombardia, ad esempio, la richiesta è di 60 articoli in due anni, pagati 2000 euro). Eppure, loro, i proprietari della presunta “testata registrata in tribunale”, diranno che hanno capito male, che il compenso non serve e serve solo il numero di articoli, anzi se sono più è ancora meglio! E così, paradossalmente, queste giovani leve scriveranno articoli di indignazione, per la gioventù sfruttata, incarnando però questa condizione proprio mentre la denunciano.

Poi ci sono testate registrate, che si spacciano per “scuole di giornalismo“, e che chiedono di essere pagate per “insegnarti il giornalismo”, e invece vogliono solo l’anticipo di quei 2000 euro di compenso che l’Ordine chiede di guadagnare in due anni, per poi “restituirli” pian piano alla persona truffata, che scriverà articoli, di fatto, gratis per la “scuola”, che li pubblica. La consolazione sarà che sono articoli firmati, e che faranno parte di un “portfolio” che le porterà via da lì, sempre che la “testata” non chiuda prima, e scappi col malloppo alle Barbados.

E così, dopo una giornata a raccogliere parole e clic, per pochi euro al giorno, o alla settimana, il furgone riporta indietro questo gruppo di persone, laureate in materie umanistiche. Saranno pensierose durante quel viaggio di ritorno. Qualcuna penserà al dottorato all’estero, alla nostalgia per l’Italia che provava, che l’ha spinta a tornare nel suo Paese, a dormire nella sua vecchia stanzetta a casa dei genitori.
Qualcuna invece pensa a quegli articoli erotici che scrive di nascosto, come ghostwriter, per rimborsare i genitori, mentre per loro svuota lavatrici e lavastoviglie, per pesare il meno possibile. Qualcun’altra pensa al portfolio che produce scrivendo gratis per chissà quale portale, le uniche pubblicazioni col suo nome, inseribili in un book, nella speranza che qualcuno, un giorno, la assuma. Quanto è grata per il fatto che le permettono di inserire la sua firma…

Adesso il viaggio è finito. È sera e le nostre giovani persone, aspiranti giornaliste, copywriters, ghostwriters, sono di ritorno. Tristi, sole, troppo stanche per fare altro, mandare cv o scrivere qualcosa di personale solo per il piacere di farlo. È finita una giornata di caporalato. Il caporalato della parola e del clic.

 

 

Parzialmente ispirato a un racconto distopico di Diego Candito, poeta, che parlava di architetti a finta partita iva. Lo linkerei, ma non riesco più a trovarlo nel web, ma mi sembrava giusto citarlo, perché è stato il primo a parlare di “nuovi caporalati”.

5 commenti su “Il caporalato delle parole”

  1. Adesso le laureate umanistiche avranno scoperto Onlyfan e venderanno le foto dei loro piedi e spero che i soldi gli bastino per chiuder la bocca a tutti quelli che dicevan loro che una laurea umanistica non serve a nulla.

  2. Ma quindi sfruttano solo le articolistE e non tutti gli articolisti in generale?
    Non è forse discriminante anche il tono stesso di questo articolo?
    Peccato perché la tematica del “caporalato digitale” è alquanto interessante e trattata da pochi… poi però la farcitura di fanatismo e rancore dell’articolo rende il tutto inquietante, se non grottesco. Delirante.

    1. Ciao carU sfottente maschiettU. Sicuramente tanti altri blog affrontano il problema del precariato dei giovani, tutti, maschi e femmine. Ma c’è un tema, che riguarda le professioni digitali, che si rivolge maggiormente, e non del tutto, a donne e persone lgbt. Il tema del blog, del resto è questo. Piattaforme che pagano mezzo centesimo a parola e testate giornalistiche che pagano 1 euro ogni 2000 clic esistono ma ci “lavorano” soprattutto donne. Spesso gli uomini ne scappano. A volte no, ma un racconto deve solo dare una suggestione e non illustrare in toto un mondo. Che ci sia un problema di machismo nel mondo digital è un fatto. Persone lgbt e donne non sono benvenute nelle professioni stem. E un blog lgbt non deve chiedere il permesso a te per parlarne. Se vuoi parlare del precariato in generale, fallo. Apri un blog. Io ad esempio ne ho due e nell’altro parlo di altro.

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