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Divisione per sessi, competizioni eque, persone trasgender, transfobia gratuita

Ebbene sì, questo articolo non è un articolo “intersezionale”, atto a convincervi di come il corpo di una donna transgender sia equivalente a quello di una donna biologicamente femmina, ma non è neanche un post “gender critical” che sottolinea quanto sia scandaloso il solo pensare che le donne trans (ah già, se fossi uno di loro dovrei dire “i maschi transidentificati in donna) possano concorrere con le donne biologicamente femmine.

Il mio articolo vuole sottolineare un altro aspetto, che è indipendente dalla posizione che si possa avere su “donne transgender e sport agonistici”: il fatto che questo tema è diventato cavallo di battaglia, e cavallo di troia, dei movimenti “gender critical”, fondamentalisti cattolici, e delle estreme destre conservatrici e reazionarie, per delegittimare le persone transgender, la loro rettifica anagrafica, e la loro cittadinanza nel mondo.

Lo sport è “diseguale e ingiusto” per sua natura


Se vogliamo parlare di sport agonistico, penso che il movimento intersezionale dovrebbe interrogarsi sui valori che portano a competere fisicamente non tanto mettendo a confronto la caparbia e l’impegno, ma il vantaggio che “madre natura” ha dato ad alcune persone e non ad altre.
Alcuni sport sono fatti per gli alti, altri per gli esili e magri, alcuni per i robusti e i massicci, e non c’è una reale probabilità che colui o colei che abbia “tanta passione”, ma non i requisiti di base, possa davvero praticare quello sport in modo agonistico.
Lo sport agonistico, in fondo, è un residuo della mentalità del “vinca il migliore”, dove “il migliore” non è relativo all’impegno, ma soprattutto alla “dotazione di partenza”.
E, se a questa tendenza si è cercato di porre rimedio con le Paralimpiadi, sarebbe onesto ammettere che anche in quel caso si tratta di persone che, al netto della disabilità, sono persone fisicamente prestanti.
Rimane tagliato fuori dagli sport la persona “non diversamente abile”, ma non particolarmente dotata nel fisico, rispetto ai parametri richiesti.

 

Quote rosa e premi per sesso: hanno più ragion d’essere?

 

Un altro ragionamento si dovrebbe fare su tutte quelle “competizioni” che sono state divise per sesso: le candidature agli Oscar, ad esempio, o le gare di scacchi.
Per quanto riguarda gli Oscar, di certo, è stato un modo di cominciare a premiare donne in cui, senza la distinzione, le donne non avrebbero mai vinto.
Per gli scacchi, invece, credo che il problema sia più sottile: è un modo di non far sentire gli uomini sconfitti dalle donne.
Potrei fare tantissimi altri esempi, ma il vero tema che sta dietro a questo ragionamento è il concetto di “quote rosa”: al netto di tutte quelle situazione legate alla forza fisica, è necessario dividere per sesso?
Ad esempio, ci sono casi in cui un’attrice donna ha interpretato un uomo ftm (ad esempio, nel caso di Boys Don’t Cry), o attori o attrici dichiaratamente non binary o transgender hanno interpretato persone non transgender (come Ruby Rose in Orange in the new black, o in BatWoman, in cui interpreta una donna lesbica). In quei casi la premiazione dovrebbe essere rivolta al genere del personaggio (quindi la migliore “interpretazione di personaggio maschile/femminile”) o al genere dell’interprete?
Le destre e i gender critical non possono eliminare gli attori e le attrici transgender e non binary, come non possono eliminare i personaggi transgender e non binary, di cui Netflix, Amazon, le serie della DC, quella di Guadagnino, o di Ryan Murphy, sono sempre più pieni.

atleta non binario

Rendere equo il confronto tra atleti diseguali


Tornano allo sport, già esistono alcuni sport in cui gli atleti vengono divisi per alcune caratteristiche fisiche, oltre che per sesso/genere.
E poi c’è il mondo delle Paralimpiadi, che vede concorrere atleti con “disabilità” molto diverse tra loro, e per cui è difficile ideare strumenti e condizioni per fare competere questi atleti in modo equo: eppure, esistono commissioni e organi di persone competenti, medici, allenatori, atleti, ingegneri, che creano le condizioni affinché la competizione sia sostenibile ed inclusiva, perché l’alternativa sarebbe far competere persone con disabilità identiche, e con lo stesso grado di svantaggio di partenza, ma ciò sarebbe logisticamente difficile e anche umiliante per gli atleti.
Così, esistono quelle che, nel mondo della scuola, chiamiamo “misure compensative e dispensative”. Qualcosa di simile viene utilizzato nelle Paralimpiadi, non vado oltre perché non sono un atleta, né un medico (sono un figlio di medici che volutamente ha fatto altri studi, e mi interessano maggiormente gli aspetti culturali, rispetto a quelli “chimici”), e non si capisce perché queste misure non possano essere estese anche gli atleti transgender, sia in direzione mtf, che ftm, che, tramite diversi dati (non solo il sesso biologico, ma anche altezza, peso, massa muscolare, dati relativi agli esami del sangue), sarebbero paragonati agli altri atleti, individuando potenziali svantaggi e vantaggi, e ponendo rimedio con apposite misure “compensative e dispensative”.
Questo varrebbe sia per gli atleti ftm, che dovrebbero essere messi nelle condizioni di competere con gli uomini biologicamente maschi, sia per le atlete mtf.
Così come le disabilità sono disparate, nella tipologia e nel grado, anche i percorsi transgender sono molto diversi, e cambiano il corpo in modo diverso (o in alcuni casi, non lo cambiano), quindi non capisco perché, vista la simmetria estrema di queste situazioni, non si procede a percorrere la stessa strada nella ricerca di soluzioni eque e sostenibili.
Del resto, se è folle pensare che una persona con una disabilità molto rara concorra “da sola”, nell’impossibilità di metterla in condizioni eque con altri atleti, è folle anche pensare che le persone transgender, statisticamente poche (molto meno degli atleti diversamente abili), e interessate a sport molto diversi tra loro, concorrano “da sole”, o con gli appartenenti al loro sesso biologico.
Ci sono le possibilità di non umiliare una persona transgender che sia anche nello sport agonistico: se non lo si fa, vuol dire che c’è un significato ideologico dietro.

 

Sport agonistico come grimaldello della transfobia



Tornando a noi, le persone transgender già sono molto poche (soprattutto quelle dichiarate e visibili), e possiamo figurarci quante siano quelle sportive, e in particolare agoniste.
Quindi perché questo polverone?
C’è una precisa intenzione ad individuare tutte le condizioni “di confine”, estreme, rare, che in qualche modo fanno risaltare il fatto che una persona viene riconosciuta anagraficamente di un genere ma che, nell’impossibilità di cambiare “sesso”, rimane comunque del “sesso” di nascita, seppur ha portato cambiamenti (ma non sempre), che hanno cambiato alcune caratteristiche fisiche (anche relative alla prestanza).
E così vediamo il proliferarsi di bufale, come quella di Pillon, “indignato” all’idea che una donna transgender di cinquant’anni, alta e slanciata, concorra “con” e “contro” ragazzine di un liceo, bufala smentita perché, come era ovvio, anche per ragioni d’età, la signora era l’allenatrice.
Un altro “grimaldello” delle gender critical, delle destre e degli integralisti cattolici, guardacaso, sono i teenager, ovviamente con tutta la serie di bufale che circonda l’argomento, per rafforzare l’idea che un minore non è abbastanza maturo per dirsi transgender, ma, sotterraneamente, affermare che in fondo nessuno dovrebbe dirsi transgender.
E così, pagine gender critical si riempiono di meme sgradevoli, in cui viene affermato, con la scusa di essere “scettici” per la presenza transgender nello sport agonistico, mettono in discussione l’esistenza della condizione transgender, insinuando, anzi, affermando, che queste sportive si “definiscono donna” solo perché erano mediocri negli sport agonistici.
E così, inizia il cosiddetto “cherry picking”, alla ricerca di casi estremi, di persone che si “dicono donna” per andare in pensione prima, soggiornare in galera in modo più confortevole, provarci con donne non eterosessuali (perché sicuramente prima dovevano essere uomini incel che nessuna donna voleva).

atleti non binari

Come è meglio agire come comunità LGBT?


Dove sbaglia, a mio parere, la comunità “intersezionale?
Continua a impuntarsi su questioni che sono proprie dei medici, degli allenatori, dei laureati in scienze motorie, di chi è abituato a misurare parametri prestazionali.
Non è il nostro campo, così come non è il campo delle “teoriche femministe gender critical”, né quello dei pontificatori di destra e integralisti cattolici.
Noi attivisti siamo specializzati sulla parte sociale del problema, ed è su quella che dobbiamo riflettere, per sensibilizzare i tecnici ad aiutarci a risolvere il problema, permettendo a ciascuno di fare sport in un modo equo e confortevole.
L’attivismo, quindi, dovrebbe concentrarsi sul vero problema, ovvero che lo sport agonistico sta diventando il grimaldello per delegittimare le persone transgender in toto, la loro rettifica anagrafica, la loro cittadinanza d’esistenza.
L’obiettivo dell’attivismo, principalmente, dovrebbe essere quello di chiarire che le regole dello sport agonistico possono divergere da quelle del riconoscimento anagrafico, e che possono restringere le condizioni di partecipazione anche senza che le persone transgender (quasi tutte non sportive, e comunque non agoniste) debbano rinunciare alla tutela del cambio anagrafico.
L’attivismo dovrebbe sottolineare che mettere in discussione il riconoscimento anagrafico delle persone transgender, anche di quelle non medicalizzate, usando il tema dello sport agonistico, è strumentale. Sono due questioni separate, e lo sport agonistico può adottare norme più restrittive in piena compatibilità col riconoscimento anagrafico delle persone transgender, atlete e non.

L’allarmismo sul “pericolo” di competizioni non eque sta diventando, pericolosamente, una scusa per seminare odio e intolleranza, colpendo tutta quella “zona grigia”, che non ha una precisa opinione sul mondo transgender, e che potrebbe lasciarsi abbindolare da temi “di massa”come quello dello sport, tramite foto scelte ad hoc, che mostrano donne transgender alte e grosse in momenti “fallosi” di sport di contatto.
La comunità di attivisti dovrebbe preoccuparsi del pericoloso “cavallo di troia”, che sta portando le destre, il femminismo gender critical, e i cattolici, a praticare un pesante ed intollerabile misgendering, associato al deadnaming, agli ed alle atlete transgender, ma anche alla comunità transgender tutte.

 

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