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FestivalMix 2020, la forza dell’irriverenza LGBT on demand ed in sala

Il rituale del Festival Mix

Il Festival Mix è uno dei momenti cardine del mondo dell’attivismo meneghino.
Per noi attivisti della “vecchia guardia”, sfilare sul “red carpet” del Festival Mix, farci le foto davanti al tabellone pieno di loghi “More Love” e bandiere arcobaleno, magari sfoggiando un bel fidanzato, entrambi elegantissimi, è il top.
Non si può non esserci: è un rituale: quando il lavoro scema, i pomeriggi di luce diventano infiniti, a giugno, inizia la maratona Festival Mix, e così per quattro giorni si “vola” in scooter, facendo lo slalom tra lavoro ed eventi PrideWeek in cui magari si è relatori, si attraversa uno sciame di attivisti e non, tutti impegnati nell’aperitivo adiacente al Teatro Strehler, tutti con birretta in mano in bicchiere di plastica.
Saluti qui e là a persone che non vedi dall’anno prima. Sfoggi il biglietto “vip”, col tuo bel collanone col cartoncino “Staff Only”, entri, posi il casco in guardaroba (dopo che ti hanno rimproverato, perché stavi entrando portandolo con te), le luci si abbassano, ed inizia la maratona: documentari che mostrano quanto sia difficile essere LGBT nei paesi in via di sviluppo, alternati a film, corti, e documentari più “occidentali”, che mostrano tecniche cinematografiche e narrative spesso più sofisticate.
E poi, le premiazioni, soprattutto alla serata d’apertura. Esserci non è solamente l’occasione di vedere una serie infinita di prodotti video che parlano di noi, ma è parte-cipare al Movimento, esserne parte, condividere questo momento con tutti gli altri che hanno, insieme a te, appena terminato un intenso anno di attivismo.
Poi, però, è arrivato il Covid….

 

Le soluzioni trovate dalla direzione artistica

FestivalMix non ci ha lasciato a bocca asciutta. A giugno abbiamo potuto godere, on demand, della proiezione di Temblores (che poi sarebbe stato il vincitore del festival), un film made in Guatemala che narra un coming out che in gergo potremmo chiamare “secondario” (in età adulta) di un padre di famiglia che subisce la marginalizzazione, in un Paese ancora non abbastanza in via di sviluppo.
Poi, a fine settembre, si è dato il La al FestivalMix vero e proprio, in modalità ibrida: alcune proiezioni e presentazioni di pregio dal vivo, e tutto il resto (in verità non di pregio inferiore) on demand da casa, con la possibilità di “chiacchierare” in chat coi vicini di posto.

La maratona dei corti e dei documentari

Si inizia con Letter to my mother, una pellicola che narra di un ragazzo iraniano, che, riprendendosi nella vasca da bagno mentre si depila, parla degli abusi sessuali subiti dal patrigno, e di quanto, parlandone con lo psicologo, non sappia quanto il suo essere LGBT sia stato condizionato da questo. Il corto finisce con un primo piano del protagonista truccato.
Passiamo ad un documentario della categoria “I talenti delle donne”: Presenting Joani: The Queen of the Paradiddle, che narra della batterista lesbica che ha aperto la strada alle donne nella musica Jazz, impegnate in strumenti pensati a torto solo per gli uomini.
Si prosegue con un corto del Nord Europa, Queer Shorts: Tricky to Love, che narra, con ironia e scenari “trash”, di una madre iper apprensiva col figlio adottivo asiatico, la quale, decidendo che il figlio è gay, gli cerca un fidanzato coetaneo sulle app, mentre vive nella paura che un viscido uomo maturo gli metta le mani addosso.
Si prosegue con Code Academy, ambientato in un futuro distopico, in cui ragazzi e ragazze crescono separati fino ai 18 anni, incontrandosi e flirtando solo in una realtà virtuale, ma cosa succede se una persona sceglie un avatar di sesso opposto?
Si prosegue con Deep Clean, corto della durata di 4 minuti, britannico, che esplora l’oggettofilia, mentre un gay molto camp, fanatico del design, vive un rapporto sessuale passivo con l’aspirapolvere, il tutto condito da una fotografia allegra e colorata, scene incensurate di penetrazione, ed una briosa colonna sonora, elementi che rendono il tutto incredibilmente camp.
Unconditional Love parla di un ragazzo polacco gay, accettato dai genitori e con un compagno, che fa coming out con una nonna molto conservatrice, momento che rischia di incrinare il loro rapporto.
Spicca il corto chiamato Les saintes de Kiko, che narra di un’artista giapponese, in Europa per trovare l’ispirazione, monitorata a distanza da un marito geloso, che si incuriosisce nel vedere due “leather bear” fare sesso in spiaggia. Inizia a “perseguitarli” e ritrarli, finché loro, inizialmente infastiditi, se ne accorgono, ma poi (sempre che non sia una fantasia dell’artista, attratta da uomini fisicamente virili, diversi dall’androgino marito orientale) la coinvolgono in un ménage à trois. Il corto finisce con quello che ormai è diventato l’ex marito, che va a chiederle un autografo per il suo yaoi di successo, ispirato a quest’avventura poliamorosa.
La maratona dei corti finisce con Panteres parla dell’adolescenza confusa di due ragazze.

I lungometraggi: e l’inconfondibile provocazione queer di Bruce LaBruce

Per ragioni di tempo, ho potuto vedere solo tre lungometraggi. On demand, ho visto And then we danced, che parla dello scoprirsi gay nel mondo del ballo (folkloristico) in Georgia.
Dal vivo ho visto Kokon, incentrato sulla vita di una quattordicenne timida a Berlino, che si interroga sulle attrazioni lesbiche che prova, sminuita da una dottoressa che ridimensiona tutto ad “una fase”, da una sorella maggiore che la bullizza insieme alle sue amiche, da una comitiva di ragazzi musulmani di “seconda generazione” piena di “maschile tossico”, e con una madre alcolizzata ed assente. Unica figura positiva, la nuova compagna di scuola, bisessuale e “punk”, che rappresenta per lei il suo primo amore.
Il film mette in scena con realismo i momenti chiave della pubertà femminile, lo stare a contatto, anche tramite lo sport, con coetanee dello stesso sesso ed il ciclo mestruale.
Maggiore attenzione ha avuto per me il film, proiettato in prima serata sabato, dopo la premiazione di Gino Strada, il film di Bruce LaBruce, autore punk/queer che seguo da anni, chiamato Saint-Narcisse, ambientato negli anni Settanta, e che di quell’epoca evoca colori e profumi.
La vicenda prende le mosse quando Dominic, turbato da sogni erotici eterosessuali e dall’immagine nebulosa di un frate incappucciato, lascia la casa della nonna, che lo aveva cresciuto insieme al padre, per rintracciare la madre, che credeva defunta, e che invece era stata “ripudiata”, separata alla nascita dal bambino, ed andata a vivere con la sua compagna in un luogo sperduto. Il suo viaggio, però, lo porterà a trovare una sorella adottiva, figlia della compagna della madre, e un inaspettato fratello gemello frate, prigioniero di un percorso di vita non scelto, e molestato da un vecchio Abate, che lo crede la reincarnazione di San Sebastiano, e lo trafigge con piccole frecce. Il regista pone in contrasto gli abusi all’interno del mondo religioso ed una famiglia poliamorista, pansessuale ed incestuosa, presentata come modello positivo.
La scena cardine è quella in cui i due fratelli gemelli, ritrovati, narcisisticamente fanno sesso. Dopo, Daniel racconta di ciò che vive con l’abate, e Dominic, sconvolto, chiarisce che è un abuso. A quel punto Daniel, confuso, chiede se è un abuso ciò che è appena successo, e Dominic, stimolando una risata del pubblico del FestivalMix (non certo dei moralisti, direi), esclama “Ma è diverso! noi siamo una famiglia!”

Conclusioni

Il FestivalMix si dimostra, come sempre, pieno di piccole perle, che sarà difficile reperire o rivedere al di fuori di questo contesto. L’unica pecca è la carenza di narrazioni transgender, soprattutto in direzione FtM, ma è possibile che negli anni questo aspetto possa essere migliorato, magari con il coinvolgimento di più attivisti transgender e non binary nella scelta delle pellicole.
Dopo questa piccola nota negativa, però, voglio fare i complimenti allo staff, che, nel proporre questa modalità ibrida, è riuscito a donare all’attivismo milanese, sconfiggendo i problemi legati al Covid, un momento rituale fondamentale, la cui mancanza, lo scorso giugno, ci aveva fatto sentire tutti un po’ vuoti e disorientati.

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